Io non sono Charlie Hebdo. Io sono Ahmed, io sono Clarissa

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Ahmed Merabet
Ahmed Merabet

La strage compiuta da due integralisti franco-algerini nella redazione di Charlie Hebdo è un atto di violenza inaccettabile. Un attentato che scuote la Francia e l’Europa intera. Anche io piango per le 17 vittime di Parigi e condanno duramente il gesto dei due terroristi ma, con altrettanta forza, voglio dire che io NON sono Charlie. Io sono Ahmed Merabet, il poliziotto musulmano di origini tunisine ucciso dal commando. Io sono Clarissa Jean-Philippe, la poliziotta arrivata dalla Martinica e freddata da Amedy Coulibaly. Clarissa e Ahmed ricordano a noi tutti e a Matteo Salvini che non ci sono “milioni di musulmani pronti a sgozzarci”, che non dobbiamo avere paura di chi viene da lontano. Che i nemici, i folli, sono una manciata di terroristi e non milioni di islamici.
Non sono Charlie perché Charlie Hebdo non fa ridere già da un bel po’ e le scelte del giornale francese, da tempo, rispondono più ad esigenze di marketing che alla tanto millantata libertà d’espressione. Per me la satira è un’altra cosa, la satira mette a nudo il Re, non ridicolizza la religione (e lo dico da ateo). La satira di Charlie su Maometto ha contribuito a radicalizzare lo scontro tra civiltà, ad aumentare la paura dei francesi, a rinforzare il consenso nei confronti delle forze di estrema destra, a far vendere qualche copia in più e a rendere famoso in tutto il mondo un piccolo magazine francese.
Charlie Hebdo è il settimanale che, durante la direzione di Val e poco dopo la pubblicazione delle prime vignette che ridicolizzavano l’immagine di Maometto, licenziò il vignettista Sinè per aver scritto una battuta sul figlio di Sarkozy. Altro che libertà di espressione.
A Roma la Federazione nazionale della stampa e l’Associazione Articolo 21 hanno riunito a Piazza Farnese i giornalisti italiani per gridare tutti insieme “Je suis Cahrlie”. Ma quando nel 2012, per l’ennesima volta, Charlie Hebdo pubblicò vignette che mettevano in ridicolo il profeta Maometto, la reazione della stampa italiana fu tutt’altro che favorevole. Sabina Ambrogi, ad esempio, scrisse su Repubblica: “Alcuni anni fa, la rivisita, un tempo di estrema sinistra, stava per chiudere avendo disperso il patrimonio di lettori proprio a causa delle sue sterzate reazionarie sotto mentite spoglie progressiste. L’allora direttore Val ne seppe risollevare le sorti ripubblicando le vignette di Maometto uscite sulla rivista danese Jyllands Posten che nel 2006 aveva causato manifestazioni e morti. A queste ne aggiunse qualcuna ancora più provocatoria. L’attuale direttore (dal 2009), Charb, ha solo seguito le piste del predecessore. Nel novembre 2011, alle soglie della campagna presidenziale pubblicò ancora caricature del Profeta, rinominando anzi la stessa rivista “Charia Hebdo”. Una molotov distrusse la redazione della Rue Turbigo. I locali del giornale vennero ripagati dall’assicurazione e le vendite salirono”.Sempre la Ambrogio chiuse il suo articolo scrivendo:“Più populista che libertario il magazine oggi desta più di un interrogativo in Francia, e appare solo un’ennesima prova di opportunismo e di strumentalizzazione … la stragrande maggioranza di musulmani, che in Europa non sono in una posizione di potere, né godono dell’appoggio della stampa e hanno difficoltà di integrazione, si sentono un po’ più soli e si radicalizzano ancora di più. E l’Occidente ha un po’ più paura. Forse resta solo da non perdere mai di vista a chi fa comodo questa paura”.
Libertà d’espressione vuol dire anche scegliere cosa pubblicare. Non è un caso se dopo la strage di Parigi Santiago Lyon, direttore dell’Associated Press, una delle più grandi agenzie di stampa del mondo, ha dichiarato: “La nostra linea generale è non pubblicare cose offensive o rappresentazioni che offendano, provochino, intimidiscano o prendano di mira simboli religiosi, o che facciano arrabbiare persone che hanno convinzioni etiche o religiose. Non crediamo che sia utile”. Nelle stesse ore il caporedattore del New York Times Philip B. Corbett, ha detto che il Times non pubblica materiale «che intende offendere di proposito la sensibilità religiosa» di qualcuno.
In momenti difficili e drammatici, come questo, dobbiamo sforzarci di mantenere la necessaria lucidità, non dobbiamo farci trascinare dall’emozione. La battaglia all’Isis, al terrore, al terrorismo si vince anche e soprattuto con l’integrazione. Dobbiamo colpire con forza il nemico ma non dobbiamo rendere chiunque un nemico e chiunque un eroe. Nel 1980, solo due anni dopo l’uccisione del presidente Moro da parte delle Brigate Rosse, Giorgio Gaber scrisse “Io se fossi Dio”, un testo durissimo in cui il cantautore milanese attaccò fermamente la follia terrorista ma con altrettanta forza criticò le politiche di Moro e della Democrazia Cristiana. Ecco, oggi come ieri, dobbiamo avere la forza e la lucidità di dire che non è giusto che “se un giornalista qualunque viene sparato da un terrorista, diventa l’unico vignettista”.

(di Pierfrancesco Demilito)

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