Amarcord. Edoardo Bortolotti, come smettere col pallone e iniziare a prendere a calci la vita

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Portava i capelli lunghi come i calciatori degli anni settanta, faceva il terzino ed era molto bravo, una promessa del calcio italiano, il classico nome segnato sui taccuini di tutti gli uomini mercato. Si chiamava Edoardo Bortolotti e giocava nel Brescia in serie B.

Alla vigilia di quella partita contro la Lucchese, il 13 gennaio del 1991, la vita di Bortolotti, appena ventunenne, si poteva dire dorata e felice: un bel contratto milionario con la società lombarda, la prospettiva di giocare l’anno successivo in serie A dato che la Roma aveva già formalizzato una lauta offerta al Brescia per accaparrarsi le prestazioni del giovane talento che correva sulla fascia coi capelli lunghi al vento, una bella fidanzata di cui era innamoratissimo. Ma quel 13 gennaio un destino beffardo decise di irrompere a gamba tesa sul ragazzo e rovinarlo per sempre. Assunse le sembianze di Roberto Paci, centravanti della Lucchese, quasi 130 reti fra serie B e serie C, che in uno scontro fortuito causò a Bortolotti la frattura del perone. Diagnosi pesante, tre mesi di stop. I compagni di squadra, la società bresciana, la famiglia, tutti incoraggiarono Edoardo affinchè recuperasse in fretta e tornasse più forte e determinato di prima; ma Edoardo entrò in crisi, la delusione di star fuori e la paura di non riprendersi furono più grandi anche delle parole e delle rassicurazioni di medici e fisioterapisti, e preferì fidarsi di una consigliera pessima, ipocrita e ladra: la cocaina.

Il 28 aprile dello stesso anno, Bortolotti fu convocato nella partita contro il Modena, andò in panchina senza entrare in campo, ma quello doveva essere il primo passo verso la definitiva riabilitazione. Fu invece il primo passo verso la fine. Al termine della gara, infatti, il suo nome fu estratto fra quelli per l’esame antidoping e il verdetto fu impietoso: tracce di cocaina, squalifica di un anno. Bortolotti non negò le sue responsabilità, ammise l’errore, disse che era stato un momento di debolezza dopo il grave infortunio alla gamba. Ma non ottenne nè clemenza, nè perdono, anzi, in men che non si dica la sua vita si trasformò in un incubo, le circostanze non aiutarono Edoardo ed il suo momento di depressione. Già, la depressione. Soltanto chi ha vissuto questa terribile malattia può capire i sentimenti di Edoardo Bortolotti: quella morsa che stringe cuore e cervello, mostrando ad un essere umano ancora vivo l’odore della morte, attirandolo verso un baratro infinito. Tutto remò contro di lui: il Brescia, offeso e tradito, gli rescisse il contratto, la Roma stracciò il preaccordo e si tuffò su altri calciatori e, come se non bastasse, la fidanzata decise di lasciarlo.

Bortolotti provò ancora a rialzarsi ed una volta terminata la squalifica tentò di riavvicinarsi al mondo del calcio trovando un ingaggio in serie C, nel Palazzolo. Si presentò diverso, coi capelli quasi rasati a zero, dimagrito, il volto emaciato, lo sguardo spento. La nuova avventura durò poco, appena 4 presenze, neanche cinque mesi di allenamenti e partite, poi Edoardo chiuse il contratto e tornò nel suo paese, Gavardo, un paesino a nord di Brescia, dove rientrò a casa dei genitori, ancora in preda ad una devastante forma di depressione. Il calcio per lui non esisteva più, se vedeva un giornale sportivo lo accartocciava e lo gettava via, se gli amici lo chiamavano per una partita di calcetto lui rifiutava. Provò a lavorare come magazziniere, dopo che il padre, stanco e scoraggiato dal vederlo sempre in casa col pigiama e le pantofole, si era dato da fare per rimediargli un impiego che gli impegnasse la testa, ma  il ragazzo non aveva ormai più stimoli. A volte usciva di casa in macchina e se ne andava per il paese, o andava a trovare sua nonna. Quando la donna morì, Edoardo chiuse la macchina in garage e posò le chiavi in un cassetto. Per sempre. L’amore della famiglia ed il supporto di uno psicologo non servirono a far rimettere in moto il suo motore che andò completamente in avaria la mattina del 2 settembre 1995. Bortolotti si alzò, fece colazione e prese come ogni giorno il suo antidepressivo; poi, intorno alle 9:30, aprì la finestra della sua camera e si gettò dal balcone in un volo diametralmente opposto a quello sognato appena tre anni e mezzo prima.

A quasi vent’anni di distanza dalla sua morte, in pochi ricordano Edoardo Bortolotti e la sua storia. Ci sono i familiari, c’è la curva del Brescia che prima di ogni gara scandisce il suo nome. Nel ventre pallonaro, ingrassato dai milioni e dagli sponsor, c’è forse poco spazio per una storia di errori, di sensibilità, di depressione, per un ragazzo finito ai margini della società anziché nel classico star system in cui vivono di solito calciatori belli e ricchi. A quasi vent’anni di distanza dal suicidio di un ragazzo debole e sfortunato, invece, è doveroso che ci si ricordi anche di lui e della sua triste vicenda.

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One thought on “Amarcord. Edoardo Bortolotti, come smettere col pallone e iniziare a prendere a calci la vita

  1. Il Brescia non rescisse il contratto a Bortolotti che si alleno’ con la squadra nella stagione 91-92 e gioco’ una gara a squalifica terminata. FU confermato NEL BRESCIA IN SERIE A STAGIONE 92-93 giocando (spesso bene) undici partite. Grazie.

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