Luglio 1943, l’ultima estate del regime

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di Eugenio D’Agata

Nel luglio del 1943 le sorti dell’Italia in guerra volgevano al peggio.  La sconfitta nell’Africa del nord nel novembre dell’anno precedente aveva aperto una profonda crepa nelle certezze dei comandi delle forze dell’Asse, e la fallimentare campagna di Russia, con il terribile assedio di Stalingrado e la drammatica ritirata dalla linea del Don nel mese di marzo segnarono il definitivo punto di svolta.

Per gli Alleati il momento era propizio per assestare un colpo decisivo. Si trattava solo di decidere dove si sarebbe aperto il nuovo fronte, se da nord-ovest o da sud. La decisione venne presa in febbraio, nella Conferenza di Casablanca:  una vasta operazione di terra sarebbe stata lanciata in quello che era considerato il ‘ventre molle’ delle forze dell’Asse, l’Italia. Nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943, la VII armata americana del generale Patton e l’VIII armata britannica del generale Montgomery sbarcarono in Sicilia, una sulle spiagge di Licata e una più a est su quelle di Siracusa.

Lunedì 19 luglio, Mussolini e Hitler si incontrarono a Feltre per provare a discutere le contromisure da adottare per arginare una situazione che stava sfuggendo a ogni controllo. Ma quello stesso giorno le forze alleate assestarono il colpo di grazia.

Alle 11 di mattina, gli aerei delle forze anglo-americane bombardarono Roma. In  tre ore, 662 bombardieri e 268 caccia sganciarono più di 4mila bombe sullo scalo ferroviario di San Lorenzo, sui quartieri Tiburtino, Prenestino, Tusolano e sugli aereoporti militari di Ciampino e del Littorio. A difesa della città si alzarono in volo appena 38 aerei, 3 dei quali vennero abbattuti. ‘Milk run’, un giro del lattaio per gli aviatori americani, e una testimonianza della fragilità delle fondamenta stesse del regime fascista. Al termine delle operazioni si contarono più di 3mila morti e 10mila feriti. Era la prima volta dall’inizio della guerra che la capitale d’Italia subiva un attacco diretto, quella capitale eletta dal fascismo a simbolo di gloria millenaria, quella Roma della quale il Duce aveva rinnovato l’epica imperiale e che aveva voluto invincibile faro di potenza agli occhi del mondo.

Tornato a Roma da Feltre, Mussolini, il Duce carismatico delle adunate oceaniche, non si fece vedere. Fu invece Papa Pio XII a scendere tra la gente nei quartieri devastati, fino alle macerie della Basilica di San Lorenzo. L’effetto psicologico del bombardamento di Roma, evocato dai comandi alleati, si stava rivelando efficace. La granitica fiducia del popolo nel suo Duce mostrava evidenti segni di cedimento. Anche la resistenza dell’esercito agli anglo-americani in Sicilia sembrò accusare il colpo. L’avanzata alleata accelerò fino ad arrivare, il 22 luglio, a Palermo e all’Etna. Alla totale conquista mancava ormai solo Messina.

A corte e tra gli stessi gerarchi fascisti si parlava con sempre più insistenza della necessità di sganciarsi dall’alleanza con la Germania nazista. Lo stesso Mussolini ne pareva ormai convinto, ma sembrava non essere in grado di elaborare una strategia. La soluzione fu trovata nel corso di un colloquio tra il re Vittorio Emanuele III e il presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni Dino Grandi. Questi, l’ex Ministro degli Esteri ed ambasciatore a Londra fino al 1939, da sempre l’unico vero esponente fascista in grado di concorrere con Mussolini in fatto di leadership, si impegnò a chiedere al Duce la convocazione del Gran Consiglio del Fascismo, il solo organo che aveva il potere di restituire al Re i poteri costituzionali.

Il Gran Consiglio fu convocato per il 24 luglio 1943. La discussione dell’ordine del giorno Grandi, che prevedeva la destituzione di Mussolini e la restituzione al Re dei poteri civili e militari, durò dal pomeriggio fino a notte. Si passò allora alla votazione. A favore si espressero in 19, tra i quali Galeazzo Ciano, Giuseppe Bottai e Luigi Federzoni. 9 furono i voti contrari.

L’indomani, 25 luglio, Mussolini si recò a villa Savoia, residenza privata del Re, per illustrare gli esiti della riunione e discutere degli sviluppi. Vittorio Emanuele III si limitò a comunicare al Duce la sua sostituzione al governo con il maresciallo Pietro Badoglio e, quando Mussolini si avviò all’uscita, lo fece trarre in arresto dai carabinieri. Solo in tarda serata fu data notizia dell’avvicendamento al governo, senza peraltro fare alcun cenno sulla sorte di Mussolini. La guerra, chiudeva il comunicato, sarebbe continuata al fianco dell’alleato tedesco.

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