Il gesto estremo di Vittorio Maglione, suicida a quattordici anni per scappare ad un futuro di violenza

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di Marta Silvestre

Il 10 aprile del 2009 è il giorno del venerdì Santo e per Vittorio Maglione, un ragazzo di quasi tredici anni, è il primo giorno di vacanze pasquali dalla scuola. Il ragazzo si sveglia tardi e, come è solito, si mette al computer per la quotidiana razione di chiacchiere online fra coetanei. Nel grande mare di parole e pensieri adolescenziali che galleggiano su Messenger, protette da uno schermo e da un nickname, ci sono anche quelli di Vittorio. Questo è il mezzo a cui il ragazzo ha scelto di affidare il suo addio: diceva di sentirsi stanco e di non avere più nessuna speranza per il futuro. Nel tardo pomeriggio, mentre per le strade si svolge la consueta via Crucis, lui lega una corda a una trave del soffitto della casa in cui viveva con i genitori e il fratello gemello e si lascia cadere da un tavolo.

Di lui rimane qualche parola per salutare “Addio a tutti quelli che mi hanno voluto bene” e una frase per il padre camorrista con il quale, poco prima, aveva avuto una discussione piuttosto animata “Io non voglio diventare come te. Adesso sei contento? Non ti rompo più”.

La cornice era quella della violenza di una periferia congestionata e abbandonata e di una famiglia difficile.

Vittorio, però, era diverso dal suo contesto familiare pienamente inserito in dinamiche criminali, e aveva deciso di non voler esordire nel mondo di Gomorra. Questa diversità è stata alla base del suo gesto: voleva abbandonare una strada che per lui sembrava segnata, quella della delinquenza che aveva portato suo padre Francesco in prigione già da giovane, all’età di 18 anni, per un’accusa di omicidio – da cui venne assolto per insufficienza di prove – e poi, alla fine degli anni ’80, a diventare un elemento di spicco del clan dei Casalesi, passando prima con il boss Tambaro e, infine, con il feroce Francesco Bigognetti. La stessa strada che, poi, in qualche modo, era toccata anche al fratello Sebastiano che a soli 14 anni era stato ammazzato con un colpo alla testa a distanza ravvicinata da un branco di ‘scissionisti’ della faida di Secondigliano – i dissidenti del clan Di Lauro che hanno insanguinato un vasto territorio – come punizione per aver tentato di rubare il motorino alla persona sbagliata. La morte del fratello, il 9 marzo del 2005, aveva segnato la vita di Vittorio che, all’epoca dei fatti, aveva 9 anni e che, da allora, portava sempre in tasca una foto del fratello maggiore ucciso. Eppure, Vittorio sembrava completamente diverso: si era appassionato alla storia di Giancarlo Siani – il giornalista del Mattino ucciso dalla camorra – a cui era intitolata la scuola che Vittorio frequentava.

Sarebbero tanti gli aspetti su cui riflettere di fronte a una storia come questa; io ho deciso di scegliere quello che ruota attorno alle responsabilità personali. Ogni persona di ogni piccola comunità cittadina dovrebbe poter riuscire a prendesi cura di un frammento. A soli tredici anni, staccarsi dalla famiglia è già un atto di estremo coraggio che dovrebbe essere notato e accolto con prontezza da chiunque ricopra un delicato ruolo educativo o formativo, come l’insegnante, il prete di parrocchia o l’allenatore sportivo.

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