House of Card – Intrighi di potere a palazzo

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di Beatrice De Caro Carella

Presentata all’ultimo Torino Film Festival all’interno della nuova sezione “Big Bang TV” l’anteprima italiana di House of Cards anticipa di poco la notizia d’una sua futura messa in onda su Sky per la prossima primavera. Intanto, la lunga attesa che ci aspetta tra il successo alla torinese, il recente rinnovo della serie (e non solo) non potrebbe caricarsi d’aspettative più alte.

Sebbene di fattura recente, House of Cards, appartiene cronologicamente alle prime produzioni originali Netflix a muoversi con abilità nel terreno ancora incerto della lunga serialità trasferita al web. Apre le acque, nel 2012 per il colosso dello streaming on-demand, Lilyhammer che, accanto alla nuovissima Orange is the New Black, rappresenta oggi per Netflix il biglietto di presentazione dramedy. E mentre il genere fantasy-horror viene ancora al momento lasciato nelle mani del vagamente scopiazzato Hemlock Grove, la sezione drama – capitanata dalla suddetta House of Cards – conquista lustro, pubblico ma anche e soprattutto i favori della critica. Non a caso, tra le news dell’ultima ora, figura la corsa della serie di Beau Willimon ai prossimi Writers Guild Awards, nella categoria “Best Drama” come in quella “Best New Series” e “Best Pilot”, ed è un onore non da poco soprattutto se si tiene conto di due fattori assolutamente non trascurabili.

Anzitutto, la levatura dei competitors. Dal plurinominato Homeland, al longevo Madmen, dall’impeccabile drama d’avvocatura precedurale The Good Wife al recentemente trapassato ma per sempre leggendario Breaking Bad. Di contro, per la categoria “New Series” sono in lizza anche la bellissima e già in onda su Sky, The Americans, e la straordinaria Masters of Sex, candidata a divenire una delle migliori e più accattivanti black comedy degli ultimi anni. Come dire, insomma, che il livello è alto, se non d’eccellenza.

In secondo luogo, ma non per questo meno importante, l’onore non trascurabile di cui si parlava sta nel fatto che il materiale maneggiato dagli USA è una volta di più acquisito da altri, ma rielaborato con abilità superiore. Come già nel caso di molti altri format – tra cui, per citare uno dei casi più eclatanti da noi discussi quello di In Treatment – il concept House of Cards è ben lontano dall’essere originale e anzi ha alle spalle una storia di trasformazioni e migrazioni politico-storico-culturali abbastanza da manuale: da trilogia di successo, creata dal conservatore britannico Michael Dobbs e ambientata negli anni del post-tacherismo, a miniserie BBC interpretata dall’attore di teatro Ian Richardson, fino alla sua ultima evoluzione in dramma politico su sfondo contemporaneo di marca prettamente statunitense ovvero – come potrebbe recitare un suo ipotetico sottotitolo – House of Cards: intrighi di potere a palazzo. Tra macchinose vendette, sgambetti elettorali, sinistre manipolazioni d’opinione, sfruttamento del potere dei media, nonché piccole e basse velleità personali messe a servizio di capricci d’orgoglio e questioni d’onore e denaro di politicanti e faccendieri della Casa Bianca.

Al centro dei giochi, il nostro grande burattinaio: un cinico e magico Kevin Spacey, disumanizzato calcolatore d’ognuna delle mosse che conduca alla caduta del fragile castello di carta della politica di palazzo, che precariamente si regge su alleanze di profitto ma soprattutto accordi di facciata, per nulla politici nel senso etico del termine; unicamente utili a tenere in piedi la baracca, affinché al prossimo soffio di vento questa non rischi d’essere gettata giù portando con se tutti i suoi precari ma astuti abitanti. Solo che Francis Underwood (Kevin Spacey), rappresentante di partito incattivito per aver perso la promessa d’un posto da vicesegretario di Stato, è il più furbo di tutti, e benché spietato e sebbene (in)degna controparte maschile della sua Lady Macbeth (Robin Wright) è pure simpatico, se non addirittura terribilmente affascinante. Tanto per il cinico disincanto con cui manovra tutti, quanto per quel suo surreale vizio di rompere la quarta parete, guardando dritto in macchina ogni qual volta sente l’esigenza d’un “a parte” dedicato al suo spettatore.

Non è un caso d’altronde che la regia, diretta da David Fincher in qualità di produttore esecutivo (anche lui come Jonze e Gondry formatosi nel mondo videoclip alla Propaganda Films) decida di riconfermare una delle peculiarità più innovative del precedente BBC, che già allora nel 1990 si sganciava dalle modalità del racconto nel romanzo. La miniserie, infatti, accentuava la qualità “teatrale” del testo di Dobbs attraverso il ricorso a questo stratagemma straniante, al tempo stesso come pochi capace di creare una sorta d’ambigua complicità tra spettatore e attore-personaggio, tanto più se questi incarna l’ideale shakesperiano negativo dell’eroe corrotto dalla sete di potere e trascinato in una spirale distruttiva di vendetta, ambizione e perdizione. Per il resto, House of Cards è la versione depurata d’ogni edulcorazione vecchio stile dei retroscena della politica come ci venivano raccontati da The West Wing: con un tocco d’autore non da poco, tra la bravura di Spacey e quella della Wright nonché una luminosità talmente cupa ed atmosfere a volte così grevi da sembrare destinate ad imprimersi nell’immaginario collettivo del suo audience TV per più di qualche decade.

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