Glee: l’addio a Finn in ricordo di Cory Monteith

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di Beatrice De Caro Carella

Luglio 2013. Cory Monteith viene trovato morto all’interno della sua camera albergo, mentre alloggiava presso il Fairmont Pacific Rim di Vancouver. Era giovanissimo, appena trent’anni, ed era noto per essere il volto di Finn Hudson, talentuoso quaterback del liceo McKinley e star di punta su Glee, comedy-drama della FOX, ideato e per la maggior parte sceneggiato da Rhyan Murphy, creatore sopra le righe tra Nip/Tuck e American Horror Story.

All’indomani dell’autopsia si parla di morte accidentale, a causa d’un cocktail di alcool ed eroina. Accidentale sì, ma pur sempre per colpa d’una dipendenza psico-fisica fuori controllo, capace di risucchiare nel baratro senza preavviso. Poco dopo però, nonostante lo shock generale, Murphy annuncia l’intenzione di dedicare all’attore un episodio-tributo e metter quindi in musica il tema della sua stessa morte.

Non era facile prevedere i toni che una tale impresa avrebbe assunto, sia per stile pop della serie che per la presenza della Michele, sua compagna di vita e sul set. Cinema e TV non sono nuovi a tali scelte, è vero, ma è anche impossibile non ritrovarsi a pensare che sarebbe bello se ogni tanto il mondo – per una volta- si fermasse e rimanesse in silenzio. E con lui l’universo dello show-business, che in tali circostanze si ha la macabra impressione tenda a nutrirsi della realtà in maniera fin troppo insana e perversa. D’altra parte, the show must go on.

Eppure non è un caso che la frase di chiusura dell’episodio in onda la prossima settimana su Sky Uno, sia proprio una storpiatura del celebre e cinico motto dello show-business. “Lo show deve andare…beh da qualche parte” sembra aver detto una volta Finn, e così la vita, che è aggrapparsi a qualcosa ma anche lasciarlo andare; “the hardest word to say”recita il promo “is goodbye”.

In qualche modo, dunque, in un’atmosfera sospesa fra l’autoironia, il fatalismo e il nichilismo l’episodio su Finn tenta di fare proprio questo: rappresentare un momento di congedo, di tributo e insieme di commemorazione, nell’unica forma che lo show-business coi sui ritmi accelerati possa contemplare. Ossia inglobando la realtà nella sua finzione speculare.

Life happens to you when you’re making other plans, cantava John Lennon. È questa la cosa che devasta chi rimane, perché come afferma greve Sue Silvester “non c’è alcuna lezione da imparare, alcun lieto fine”. Non rimane nulla dopo la morte di qualcuno, “non c’è significato da cercare. Solo potenziale sprecato”. D’altronde chi resta non può non pensare al tempo perduto, ed è questa forse l’unica banalità (pur vera e tragica) che la sceneggiatura si concede. Il resto è silenzio in musica.

Si potevano dire milioni di banalità sulla morte di Monteith, trasformare la scena di Glee nel palcoscenico della facile morale sui pericoli e le responsabilità della droga ma a che pro? “Non importa come sia morto” dice Kurt, conta il semplice fatto che non ci sia più. È la bottom-line dell’intero episodio che aggirando i pericoli del cattivo gusto non si cura della coerenza narrativa della morte di Finn Hudson: sanno tutti il vero motivo della scomparsa del suo personaggio e il tema della droga non ha bisogno d’essere gridato. Però può essere cantato e fare da sottotesto silenzioso.

Il numero d’apertura con “Season of love” cita The Rent, musical su temi della droga e dell’AIDS “How Do You Measure The Life Of A Woman Or A Man/ In Truth That She Learned/ Or In Times That He Cried/ In Bridges He Burned/ Or The Way That She Died“. Mercedes dedica all’amico scomparso “I’ll Stand By You” dei Pretenders, la cui storia musicale è intrecciata al tema per via della morte per overdose del loro fondatore, James Honeyman-Scott. “Fire and Rain” di James Taylor rimarca ancora il senso di questo momento di sospesione del racconto, mentre “If I die Young” assume la prospettiva di chi spera che nonostante “the sharp knife of a short life” si sia saputa vivere la propria vita. “No Surrender”, infine, grido di dolore di Puckerman, viene riproposta nelle note di quella versione malinconica da cantata country che Springsteen riservava per ilive tour, restituendo al testo il suo spessore emotivo. Un’operazione d’adattamento acustico non dissimile da quella messa in atto per la cover di “Forever Young” di Dylan o di “I Wanna Hold Your Hand” dei Beatles, sul modello della versione di Across the Universe.

Certo lo stile è sempre quello del drama – tra lacrime e pathos e un inevitabile patina kitsch – ma The Quaterback non è un sobrio concerto in memoriam, è un prodotto TV e a date regole deve sottostare. Il merito sta nel fatto che Murphy, in sottotesto, pur stando al gioco dello show-business, riconosce una cosa: che la TV d’intrattenimento, luogo della spettacolarizzazione per eccellenza, non è lo spazio per imbastire saggi sociali sul male di vivere. Piuttosto è un luogo per conservare il ricordo, per chiunque ciò abbia un senso.

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