Festival di Venezia – Narrative che sconvolgono e documentari urbani. C’è un Fil Rouge nel nuovo cinema

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di Virginia Bellizzi

Il 70° Festival del Cinema di Venezia si è concluso nella splendida cornice del Lido. Molti critici, l’hanno visto come la prova tangibile di un’annata di magra per il cinema internazionale, ma la qualità, per alcuni lavori non manca.

Fra gli italiani, con L’Intrepido, il regista Gianni Amelio mette in scena la precarietà di un quarantacinquenne che si confronta con una rabbia giovanile tutta contemporanea, nel set di una Milano fredda, frenetica ed alienante.

Nel fantascientifico Under the Skin,  il regista Glazer trasforma la diva Scarlett Jhonson in seducente aliena, e la inserisce in desolati e suburbani paesaggi scozzesi che fanno da sfondo, e forse da  prigione, a un esercito di uomini annoiati e grotteschi.

L’ambito Leone d’oro, se lo aggiudica il documentario italiano Sacro Gra, firmato da Gian Franco Rosi.Ed era dal 1998 con Così Ridevano di Gianni Amelio che un nostro autore non si aggiudicava un premio così prestigioso. Rosi si fa esploratore urbano e mette al centro del suo lavoro i personaggi invisibili che gravitano intorno al raccordo anulare di Roma, ricostruendo un tessuto sociale e metropolitano sommerso.

Secondo sul podio, il greco Alexandros Avranas , che con Miss Violence si aggiudica il Leone d’argento. Il film, racconta la storia di una famiglia greca dei giorni nostri, per intraprendere un viaggio nel dramma della violenza domestica.Sulla stessa scia, Moebius del Leone d’oro 2012 Kim ki-duk, è una pellicola dura e cruda che non risparmia incesti, evirazioni, e arti insanguinati. Gerontophilia di Bruce LaBruce, indicato come il film che avrebbe dovuto sconvolgere il festival, è  la storia d’amore tra un vecchio di 81 anni e un ragazzo di venti.

Ma in questa moltitudine di ciack, si può forse trovare un unico comune denominatore alla base degli sforzi creativi. Infatti, fra i sentimenti di rabbia e violenza, e la complessità di esistenze vissute ai margini, si fa strada un obbiettivo condiviso: raccontare il tralasciato. Descrivere una società partendo dalle sue molecole, i singoli e le famiglie, affrontando i tabù,  la brutalità celata nella vita quotidiana e domestica,  l’amore fra un vecchio e un giovane, le vite normali quanto incredibili, se non raccontate, altrimenti invisibili.

L’altra costante è quella di un festival in cui si sperimentano nuovi parametri stilistici e formali, stringendo l’occhio della telecamera su primi piani evocativi che nascondono drammi oscuri e silenziosi, esplicati attraverso una grammatica visiva composta da lunghi piani sequenza e da  una fotografia superbamente calcolata, funzionale ai ridondanti silenzi intervallati dai dialoghi generalmente scarni, a volte fin troppo. Inoltre, si ha la  strana sensazione che molti film, nel tentativo di descrivere una realtà  inesplorata, esulando dai canoni del cinema di genere, assolvano la funzione  del documentario. D’altra parte, i documentari,  danno lezioni di stile: costruendosi attraverso una ricerca estetica , inserendo elementi di sottintesa finzione e dialoghi che sembrano sceneggiature si trasformano in film.

In questa kermesse cinematografica di schemi capovolti, emerge anche il fatto che la crisi dell’industria del  cinema possa trovare un escamotage, riuscendo a produrre film low cost che (a volte sì a volte no) funzionano, come nel caso di Locke, film  fuori concorso del regista inglese Knight. L’opera si snoda in 85 minuti di ripresa vissuti in tempo reale dentro un’auto, guidata dal bravissimo Tom Hardy, e trova  il suo motore in una sceneggiatura di ferro in cui le conversazioni fra il protagonista , i colleghi, la moglie e i figli avvengono al telefono, e ci raccontano la situazione paradossale della vita di un uomo che sta andando a pezzi. Le telefonate alternate alle luci di un’autostrada notturna bastano ad alimentare la curiosità dello spettatore? In questo caso sì, perché i dialoghi, a volte amari, altre volte infarciti di english humor, si alternano con un’ ineguagliabile forza, ritmo e stile, rendendo incalzante la narrazione e portando lo spettatore a sentirsi invisibile compagno di viaggio del protagonista.

E l’ “On the road” , è una scelta che ritorna anche in altri film del festival, come Traitors del regista americano Sean Gullette, il già citato  Under The skin, La vida despues del messicano David Pablos. Viaggi solitari, oppure in coppia, ma comunque finalizzati alla ricerca di qualcosa di più profondo, che lasciano la sensazione  di un arrivo mai raggiunto, perché la meta, alla fine, è sempre altrove. Per questo, cercando un aggettivo che descriva il festival, si potrebbe definire “psicologico”.

Ma se l’obbiettivo dei registi, è quello di entrare “sotto la pelle” , proprio come il titolo di un film in concorso, non sempre sono bastati i paesaggi sublimi a fare da sfondo, o una fotografia algida come metafora di un’esistenza problematica, ma c’è bisogno di un ossatura, che deve essere rappresentata da una scrittura più travolgente, sensata e ben costruita. Se in alcuni casi questo scheletro si è dimostrato poderoso, come  nel già citato Locke, e nel premiato  The Reunion, della regista svedese Anna Odell, altri film ne risentono la mancanza, risultando un po’ vuoti di contenuto. Ma nel complesso, vista la qualità di molti dei lavori, la scommessa è  che anche le prime opere e i nomi dei registi  meno altosonanti emergano dall’oasi fascinosa del lido di Venezia, per approdare  nei prossimi mesi, anche ai botteghini. Altrimenti, si rischia di creare un circuito chiuso , in cui i film del festival trovano il tempo di un Red Carpet, mentre vengono  fruiti da critici, giornalisti , appassionati, addetti ai lavori. Niente di più.

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