Settantesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia: trionfa il made in Italy

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di Annalisa Gambino

Vero protagonista della settantesima edizione della mostra di Venezia è il cinema nazionale. È Gianfranco Rosi a vincere il leone d’oro con il documentario Sacro Gra mentre la ottantenne Elena Cotta, protagonista del film Via Bandiera Castellana di Emma Dante, si aggiudica il premio Coppa Volpi come migliore attrice superando l’emozionante interpretazione di Judi Dench in Philomena di Stephen Frears.

Il presidente della giuria Bernando Bertolucci aveva dichiarato esplicitamente la sua intenzione di innovazione. L’assegnazione dei premi ha portato in superficie un’importante riflessione sul cinema di taglio documentaristico desideroso di autodeterminarsi e di affermarsi all’interno dei circuiti cinematografici ufficiali. Gli altri titoli in concorso confermano una tendenza nel raccontare il reale. Comun denominatore è lo sdoganamento del cinema nel degrado sociale della famiglia intesa come punto di partenza per le atrocità più violente. Ne è un esempio la scioccante vicenda di Miss Violence del greco Alexandros Avrana -premiato due volte con il leone d’argento per la regia e con la Coppa Volpi per il miglior attore. Il film tratta il tema dell’abuso sessuale da parte di un nonno che violenta prima la figlia e poi le nipoti nate da quel legame incestuoso.

Stesso discorso vale per i personaggi disperati che si aggirano ai margini della  periferia urbana di Taipei in Stray Dogs del cinese Tsai Ming-liang vincitore del Gran Premio della giuria.

La violenza domestica è anche al centro di La Moglie del Poliziotto del tedesco di Philip Groening che mette in scena una storia di ordinaria follia all’interno di una famiglia solo all’apparenza normale, aggiudicandosi il Premio Speciale della Giuria. Restano in disparte i promettenti Locke di Steven Knight nella sezione fuori concorso, e La Jalousie di Philippe Garrel. Il primo inscena un dramma che si svolge interamente in auto: il protagonista (Tom Hardy) intraprende un viaggio non solo fisico ma anche emotivo destinato a cambiare ogni sua certezza una volta sceso dal mezzo. Mentre il secondo, La Jalousie, costituisce un vero e proprio omaggio a una delle più belle stagioni cinematografiche di sempre, la Nouvelle Vague. Citazionismo a quanto pare non gradito dalla giuria dato che, a dispetto delle aspettative, non porta a casa nessun premio.

Nonostante i vinti e i vincitori, la scelta dei titoli di questa settantesima edizione di Venezia, colpisce per aver portato sullo schermo un’ansiosa solitudine che si riflette nel disagio dei protagonisti. Spesso sono uomini comuni come Antonio Pane, interpretato da un disarmante Antonio Albanese che, per sopravvivere fa il ”rimpiazzista” di chi non può all’ultimo momento andare a lavorare; o sono alieni come la Johansson nelle vesti di una ”vedova nera” che segue, cattura e si ciba delle sue prede in Under Skin di Jonathan Glazer; o astronauti persi nello spazio come in Gravity di Alfonso Cuarón; o ancora, i due fratelli dello spagnolo David Pablos in La vita Despuès impegnati nell’incessante ricerca on the road della madre scomparsa; o infine la protagonista vittima di bullismo scolastico del ”film nel film” The Reunion della regista-attrice svedese Anna Odell.

Non è importante quali connotazioni geografiche e sociali la solitudine assume. Resta il fatto che è il filo rosso che accomuna gran parte dei film presentati unitamente alla caparbia ricerca di essere accettati e di far parte di qualcosa. E questo disagio nasce e si sviluppa proprio all’interno della famiglia, primo nucleo sociale di cui fa parte  l’individuo. La solitudine, l’alienazione e la spersonalizzazione sono temi scottanti affrontati anche dal regista vincitore.

Dopo quindici anni, il leone d’oro torna dunque all’Italia e lo fa portando con se un’importante innovazione resa possibile solo da un autore lungimirante – il maestro Bertolucci che sceglie di premiare il documentario di Rosi. Sacro Gra, afferma il regista ”è stato una fatica tremenda”. Il documentario racconta le storie di vita di personaggi eccentrici che si muovono intorno ai 70 km di cemento che costituisce la più estesa autostrada urbana nazionale ed è costato al regista tre anni di ricerca. La collezione di esperienze e incontri straordinari hanno reso possibile  l’instaurarsi di una narrazione che fa emergere qualcosa di più complesso della semplice messa in scena. Il raccordo anulare si eleva a simbolo della dispersione, un contenitore di storie al margine di un universo che si espande veloce come le macchine in corsa sul raccordo. E dall’alto di una ripresa aerea le luci rosse delle auto somigliano sempre più a quei parassiti che uno dei protagonisti, il palmologo, vuole assolutamente estirpare.

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