Ricordando Falcone e Borsellino: dialogo immaginato fra nonno e nipote

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Gianni Minà, in un’intervista, chiedeva a Nino Caponnetto: “Sono stati suoi figli Borsellino e Falcone? O suoi Fratelli?”. Il giudice: “Non lo so cosa siano stati. Sono stati la parte più importante della mia vita. Sono stati tutte queste cose insieme: amici, colleghi di lavoro, figli, fratelli… sono stati un punto di riferimento insostituibile nella mia vita”. Prendo in prestito queste parole di Caponnetto, oggi. A vent’anni da Capaci e Via D’Amelio. Le faccio mie, perché le sento mie. Perché anche io, come milioni di italiani giovani e meno giovani, ho avuto due papà, due fratelli, due amici di nome Paolo e Giovanni. Perché ogni azione della mia vita, ogni scelta fatta, ogni “no” o “sì” pronunciati hanno risposto al’imperativo del fare il proprio dovere ad ogni costo, del ribellarsi al compromesso morale, del rifiuto a vendere l’anima per una posizione comoda, per un posto al sole. In questo giorno vorrei condividere con i lettori di Mediapolitika, un racconto scritto anni fa. Un viaggio d’inchiostro, una fuga della memoria involontaria verso le ragioni più profonde del tentativo di vivere a schiena dritta. In nome di Paolo e Giovanni. (Vincenzo Arena)

di Vincenzo Arena

Era un caldo giorno dell’estate 1992. La voce del cronista si spense in quel preciso istante. Prima che la regia del telegiornale staccasse il suo microfono, si riuscirono a percepire nitidi due profondi sospiri, in cui vibrava una forte commozione. Sei feretri portati a spalla avanzavano fra le ali di folla assiepata nella navata centrale. E in fondo a quest’ultima l’ingresso della cattedrale di Palermo. I raggi del sole facevano educatamente capolino dalle porte spalancate e sfioravano ad una ad una le bare che stavano raggiungendo l’ampio spiazzo esterno alla chiesa. Gli applausi scrosciavano assordanti. Le telecamere inquadrarono dall’alto, con uno zoom improvviso, due giovani che stavano srotolando e issando un lenzuolo bianco sul lato lungo delle inferriate che circondavano il cortile d’ingresso. “Non li avete uccisi! Le loro idee continuano a camminare sulle nostre gambe”.

A quel punto la mano pesante di mio nonno afferrò di scatto il telecomando e spinse il tasto rosso in alto a destra. Girai il capo a sinistra e lo vidi immobile davanti alla tv ora muta e scura. Una lacrima gli rigava la guancia rugosa. «Noi siciliani siamo così!» – esclamò con voce chiara – «Capaci di grande indifferenza e di sinceri, ma inutili slanci d’orgoglio». Lui la Sicilia l’aveva lasciata a diciotto anni. Aveva lasciato i suoi genitori e i suoi fratelli a Piazza Armerina, paesino in provincia di Enna, arroccato su un dolce declivio, a non molti chilometri dall’Etna. Lì, nel cuore della Sicilia era nato. Lì, fra il profumo delle zagare in fiore e il cigolare dei carretti dei mezzadri che saltavano sui viottoli di campagna, aveva trascorso le torride estati e i tiepidi inverni della sua giovinezza. Lì, il suo pensiero tornava sempre più spesso ora che gli anni cominciavano a pesare come macigni nella sua mente e nel suo corpo.

Mio nonno s’alzò. Senza rivolgermi uno sguardo. Uscì da quella cucina grigia. Girò a sinistra. Lo sentii aprire la porta di una stanza … quella del suo piccolo studiolo in fondo al lungo corridoio dell’appartamento. Lo vidi rientrare in cucina. Io ero seduto sulla stessa sedia di poco prima. Non mi ero mosso di un millimetro. Avevo seguito con lo sguardo e l’udito ogni suo minimo movimento e ogni sua parola. Si sedette di nuovo sulla sua poltroncina in pelle rossa. M’accarezzò teneramente il volto e mi disse: «Voglio parlarti di me: voglio parlarti della mia terra». Lo vidi aprire un volumetto ben rilegato. Le pagine di quel libro sembravano ormai consunte da un uso che doveva essere quotidiano. La copertina recava in cima un titolo che per la prima volta leggevo: Il Gattopardo. Fra le pagine opache del libro vedevo spuntare dei piccoli pezzi di carta, usati come segnalibro. «In questo romanzo ritrovo sempre le mia Sicilia – cominciò mio nonno. – In ogni pagina, ad ogni parola riesco a sentire i profumi della mia infanzia». Io continuavo a non fiatare. Totalmente preso da quelle parole e dal movimento lento delle sue labbra che si muovevano nell’atto di comunicare un sincero effluvio del cuore.

«Il principe Fabrizio Salina – parlava del protagonista dell’opera – mi ricorda mio padre. Nelle sue parole riesco sempre ad assaporare un dolce amore per la sua, la mia isola. Ma anche l’amara consapevolezza che i Siciliani e la Sicilia non cambieranno mai». Finalmente, aprii bocca: «Che vuoi dire nonno?». «Voglio dire – rispose subito – che il principe Salina sa che la sua, la mia terra è una terra bella e difficile.. Sa che tutti i problemi della Sicilia sono determinati da una sola cosa: l’animo stesso dei siciliani. Ma ascolta …» Cominciò a sfogliare il libro e a cercare una pagina precisa. «Ecco. – esclamò – ascolta». Cominciò a scorrere con il dito le righe leggermente sottolineate a matita e a leggere con voce netta. «Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portare loro i più bei regali». Scese, guidandosi con l’indice, di qualche riga: «Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte: desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorzonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana». Alzò gli occhi dalla pagina appena letta.

Chiuse il volumetto dolcemente, tenendo con il dito il segno, e guardandomi dritto negli occhi mi disse: «Figlio mio, la mia Sicilia è questa. Un mondo a sé. Come dice il principe Fabrizio, la Sicilia è un sonno continuo. E quei pochi siciliani che cercano di svegliarsi da questo torpore … quei pochi che non accettano che la loro terra dorma un sonno perenne … quei pochi hanno due scelte. Lasciare la Sicilia, lasciandoci pure il cuore. Come ho fatto io. Oppure finire come quei sei di prima … in tv». Si fermò un attimo. Fece un profondo respiro e, riaprendo il libro, ricominciò subito. «Caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte di ogni miseria».

Tornò poi velocemente indietro di qualche pagina e disse: «Ah, dimenticavo. Senti: Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati, e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità d’animo». Ed ancora, voltando la pagina avidamente: «In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il là».

A questo punto si fermò. Chiuse con strana violenza quel libro e alzò in alto lo sguardo dicendo con voce flebile, percorsa da un brivido di malinconia: «Ah, la mia terra…». Con istinto ingenuo e infantile mi allungai verso di lui e posi la mia mano sulla sua. Lui abbassò verso di me lo sguardo e mi passò una mano fra i capelli. Ero sicuro, fissandolo bene, che le sue labbra stessero per schiudersi di nuovo a dire altre parole. Fu così: «Non è vero – iniziò – che dalla Sicilia non è germogliata alcuna “civiltà. Non è vero che i Siciliani non hanno dato il là a niente. Purtroppo qualcosa lo abbiamo prodotto in secoli di storia. Ci mancavano i governi e i governanti. O ne avevamo fin troppi e troppo avidi. Ci mancava lo stato. Ci mancava la pubblica amministrazione. E … che abbiamo fatto? Ci siamo costruiti il nostro stato. La nostra amministrazione. La nostra burocrazia. La nostra legge». Si fermò. Prese il bicchiere di vetro vicino a lui e sorseggiò un po’ d’acqua. «E’ la MAFIA. È la mafia il nostro stato. Le sue famiglie e i sui boss sono il nostro governo. È il suo codice d’onore la nostra cultura. È la sua omertà la nostra voce. La mafia è un prodotto tipico siciliano. Un prodotto di successo visto che siamo riusciti ad esportarlo in tutto il mondo». Non parlò più a quel punto. Aveva gli occhi lucidi e la voce ormai si era spenta quasi rotta dall’amarezza. Si alzò dalla sua poltroncina in pelle rossa e dopo avermi accarezzato il volto mi disse: «Vado a riposare un po’». Uscì dalla cucina ed entrò nella stanza di fronte. Lo sentì poggiarsi lentamente su quel letto morbido che era stato il luogo preferito dei giochi e delle capriole della mia infanzia.

Mi alzai da quella sedia su cui ero fermo da più di due ore. La porta della sua camera da letto era chiusa. Andai nella suo studiolo in fondo al corridoio. Mi guardavo intorno con uno sentire nuovo. Tutti quei libri sugli scaffali sembravano ricambiare i miei sguardi. Nell’angolo della stanza c’era una pesante scrivania di legno. Su di essa libri, fogli di carta battuti a macchina e due cornici. In una, la foto in bianco e nero di mio nonno e mia nonna che camminavano a braccetto per le strade di non so quale città. Nell’altra cornice, dieci versi di una poesia: «Isola/di te amare m’attrista,/mia terra, se oscuri profumi/perde la sera d’aranci/o d’oleandri, sereno,/ cammina con rose il torrente/che quasi n’è tocca la foce./ ma se torno a tue rive/e dolce voce del canto/chiama la strada timorosa/non so se infanzia o amore, /desio d’altri cieli mi volge,/e mi nascondo nelle perdute cose».

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