Bangladesh: le grandi firme sulla tragedia di Dacca

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di Alessandra Vitullo

Era inagibile, fatiscente e costruito illegalmente su uno stagno prosciugato in modo artificiale, il Rana Plaza, il palazzo di otto piani crollato lo scorso 24 aprile nei dintorni di Dacca, Bangladesh. Nell’edificio, proprietà di un politico locale, si trovavano cinque fabbriche tessili, un centro commerciale e la banca Bangladesh Rural Advancement Committee (Brac), in totale circa 3 mila persone. La Brac, una delle Ong più grandi al mondo, attiva in 69 mila villaggi del Paese con progetti di sviluppo agricolo, microcredito, scuole, ospedali e difesa dei diritti umani, è stata l’unica attività a non aver registrato vittime, poichè sapendo dell’inagibilità della struttura ha avvisato dipendenti e clienti di non andare a lavoro.

Al momento il numero delle vittime è di 341, ma i dispersi sono ancora più di 300. Solo il giorno precedente al crollo, a seguito della segnalazioni da parte dei lavoratori di importanti crepe alla struttura, erano state fatte dell’ispezioni che avevano dichiarato l’inagibilità dell’edificio; ma: “se non venite non vi pago gli arretrati”; “se manchi un giorno te ne tolgo tre dalla paga”, minacciavano i proprietari dei locali e così, al momento del crollo, tutti gli operai si trovavano nella fabbriche, a guadagnarsi i 35 euro di paga mensile.

Producevano vestiti per la statunitense Gap, l’italiana Yes-Zee, la spagnola Mango, l’inglese Primark. Si leggono nuovamente i nomi di Wal MartC&AKik, già noti per l’incendio avvenuto nello scorso novembre, sempre a Dakha, nella fabbrica Tazreen, dove persero al vita 112 lavoratori, e che, per quanto riguarda la tedesca Kik, si sommano alla morte di altri 300 lavoratori, causata sempre da un incendio, nello scorso settembre, nello stabilimento pakistano di Ali Enterprises.

Il premier bengalese Sheikh Hasina ha subito indirizzato un appello a costituirsi ai proprietari che avevano costretto gli operai ad entrare in fabbrica e che, dopo il crollo si erano dati alla latitanza. A consegnarsi alla polizia finora sono stati solo in quattro: Mahbubur Rahman Tapas e Bazlul Samad Adnan, proprietari della New Weave Bottoms e della New Weave Stylee, e i due ingegneri che avevano comunque autorizzato l’ingresso nell’edificio.

La Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign, da più di venti anni impegnata nella sensibilizzazione dei consumatori nella lotta per i diritti dei lavoratori, che vengono sfruttati dalle grandi industrie per la loro manodopera sottopagata, ha esortato nuovamente le grandi marche a sottoscrivere il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement  un programma specifico di azione che include ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza. Il Bangladesh esporta il 60% della sua produzione vestiaria verso l’Europa, il 23% verso gli Stati Uniti e il 5% verso il Canada, ma l’ accordo, per il momento, è stato sottoscritto solo dalla società statunitense PVH Corp (proprietaria di Calvin Klein e Tommy Hilfiger) e dal distributore tedesco Tchibo.

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