Fondi alle scuole. Si riparte dalla Gelmini

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di Emiliana De Santis

L’idea non è nuova. Il ministro Francesco Profumo l’ha traslata dall’università alla scuola. E così la legge di stabilità approvata prima di Natale prevede un comma (art.1, comma 149) in base al quale, a partire dal 2014, “i risultati conseguiti dalle singole istituzioni sono presi in considerazione ai fini della distribuzione delle risorse per il funzionamento”. Bando dunque ai fondi a pioggia e porte aperte al risultato. Ma “nessuno al momento sa che cosa significhi risultati” esordisce Giorgio Rembado, presidente dell’Associazione nazionale presidi. La notizia ha suscitato scarsa eco ma rischia di tradursi in altri tagli sulle già depauperate finanze scolastiche.

Riprendendo l’assunto di fondo della Riforma Gelmini, l’attuale ministro dell’Istruzione, ha inteso – o meglio ha provato – a porre fine alla scarsa razionalizzazione dei fondi di Funzionamento di cui gli oltre 9mila istituti scolastici italiani vengono dotati ogni hanno dal Miur. Buone le intenzioni, generica la norma, inserita in una legge di stabilità approvata forse troppo tardi o forse con troppa fretta: è il paradosso dei tempi elettorali. Funzionamento per una scuola significa poter acquistare i materiali, creare e mantenere i laboratori, rispettare gli standard di sicurezza, garantire la pulizia delle strutture oltre che retribuire supplenti e insegnanti. Quest’ultimo fattore di non poco conto se si pensa che dei quasi 41miliardi atti al funzionamento stimati nell’anno 2010/2011, 38 erano da destinarsi agli stipendi del corpo docente. Ne deriva quindi che per attività necessarie all’ammodernamento e al progresso dell’apprendimento, resta ben poco.

Il punto di dibattito, tuttavia, è concentrato sulla parola “risultati”. In Italia non esistono al momento metodi di valutazione standardizzata realmente efficaci che riescano a tener debito e contemporaneo conto della sfera didattica e di quella amministrativa. A voler considerare solo la prima, un risultato potrebbe essere quello dei test invalsi o il tasso di dispersione scolastica o infine il numero dei promossi. Nessuno di essi tiene però in conto – critica assai pertinente mossa agli stessi test Invalsi – del contesto sociale, culturale, economico in cui una scuola si trova a dover operare. “Sarà necessario tener conto del numero dei promossi, della media dei voti e trovare una classifica che misuri i progressi: bisogna conoscere il punto di partenza di una scuola per quantificarne gli scatti in avanti” sottolinea Rembado. Gli fa eco Massimo Di Menna, della Uil scuola: “è fin troppo evidente che le prove standardizzate risentono delle condizioni  del contesto”. La logica dovrebbe inoltre integrare il principio che proprio dove mancano i risultati c’è necessità di intervento e quindi di maggiori fondi. Programmati, gestiti e utilizzati con criterio ma comunque necessari. Ben altro rispetto ai 2miliardi e mezzo destinati due anni fa dal Miur, che a malapena coprono i soli costi amministrativi.

Un richiamo in vista delle prossime elezioni: il futuro del nostro Paese passa da una scuola di qualità.

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