Taiji, la strage dei delfini: un mare rosso sangue

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di Daniela Silva

Taiji è una cittadina giapponese situata nella regione di Kansai. Il paesino è tristemente famoso  per la caccia al delfino, che si svolge ogni anno ed è una delle principali attività economiche della zona.

Ogni anno, da settembre a marzo, si apre la caccia ai delfini e, orientativamente, vengono uccisi oltre 20mila cetacei. Quello di Taiji è un vero e proprio sterminio che si perpetra tra l’indifferenza dei media giapponesi, tanto che cordoni di poliziotti, filo spinato e transenne tengono lontani curiosi e giornalisti.   Nel 2009, però, ha preso vita un documentario diretto da Louie Psihoyos e girato in gran segreto per cinque anni nella baia di Taiji. Il film documenta le tecniche utilizzate per la cattura e uccisione dei delfini e l’alto tasso di mercurio presente nella carne di delfino. Il 7 marzo 2010 il film ha vinto il Premio Oscar come miglior documentario.

Quanti abbiano visto la pellicola  non possono aver fatto altro che rimanere inorriditi davanti ad una mattanza perpetrata quotidianamente nei confronti dei delfini in quelle acque. Dai video girati e montati si percepisce come le stesse autorità nipponiche avallino crudeltà che travalicano ogni umana sopportazione.

La cattura inizia in mare aperto: i pescatori giapponesi, una volta avvistati i branchi, iniziano a battere violentemente su barre di acciaio parzialmente immerse in mare creando così una barriera sonora che spinge i delfini nella baia di Taiji. Alcuni motoscafi chiudono poi l’insenatura con delle reti. I delfini rimasti in trappola si dibattono con violenza nel tentativo di liberarsi. Intanto alcuni subacquei si immergono e isolano dal branco gli esemplari giudicati più adatti per essere rivenduti ai delfinari. Gli altri vengono, invece, arpionati e portati a riva per il sezionamento e l’invio ai mercati. La cattura dei delfini, infatti,  non è legata solamente all’industria alimentare e al consumo nei ristoranti, ma anche al business dei delfinari e dei circhi acquatici. La “giustificazione” del Save Japan Dolphins è che questo massacro si compie per soddisfare una minoranza del popolo giapponese, in quanto la carne di delfino non è nella cultura alimentare del popolo giapponese.

Il grimaldello con cui viene violata la Convenzione di Washington, che prevede la moratoria della caccia ad alcune specie di questi mammiferi, sembra essere l’uso dei delfini “a scopo educativo”. La Convenzione inserisce, infatti, i delfini di Taiji in una lista che prevede non il divieto assoluto di caccia, stabilito per gli animali in via di estinzione, ma l’istituzione di quote di prelievo. Il Giappone, pertanto, può catturarli con l’ipocrita alibi di difendere le risorse ittiche dai possibili predatori, a tutto vantaggio in realtà dell’industria alimentare e di quella del divertimento. E’ infatti proprio con la scusa di diffondere tra la popolazione la conoscenza del mare, che le autorità giapponesi avrebbero chiesto di incoraggiare la cattura anche di specie sotto tutela, come il Lagenorinco dai denti obliqui.

Secondo Giovanni Guadagna, responsabile del settore zoo e acquari della Lav, la Lega antivivisezione, nel mondo quasi il 65% dei delfini detenuti nei parchi divertimento proviene da catture in mare. Ad esempio, tutti i delfinari italiani sembra detengano o abbiano detenuto delfini di cattura o di prima generazione nati in cattività.

Anche la European Association for Aquatic Mammals  condanna la pesca dei delfini in Giappone. Pur riconoscendo il fatto che le diverse culture usino specie diverse a scopo alimentare tuttavia, la crudeltà delle uccisioni e il completo disprezzo per la sostenibilità di tale caccia è del tutto inaccettabile, in quanto mostrano una forte mancanza di rispetto per il patrimonio naturale di tutti e per il benessere di migliaia di animali.

C’è da dire che anche il Governo italiano ha chiesto a quello giapponese di far cessare la mattanza annuale dei delfini. A dichiararlo è stato l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini, in un’intervista al Tg2, dove ha sottolineato la decisione di presentare una richiesta formale alle autorità nipponiche, tramite l’ambasciatore italiano a Tokyo. Ma, purtroppo, lo sappiamo tutti, non servirà, almeno fin quando non si capirà che i delfini sono predatori all’apice della piramide alimentare e definirli animali intelligenti è troppo poco, perché  sono molto più simili agli essere umani di quanto comunemente si pensi. Una serie di studi sul loro comportamento effettuati nelle università e pubblicati dall’autorevole “Times” hanno evidenziato come il loro modo di comunicare sia simile a quello degli esseri umani e che sono più brillanti degli scimpanzé.

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