Spiagge, l’europa “spaventa” l’italia: troppi 90 anni di concessione

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di Emiliana De Santis

Che ogni tanto, in Parlamento, qualcuno dia i numeri, è fatto noto. Che qualcun altro presenti disegni di legge o di modifica di legge un pò “stravaganti” è cosa altrettanto nota. Che le norme siano pensate, formulate e scritte appositamente per aggirare gli ostacoli del buon senso, a volte stupisce. Le Camere partoriscono anomalie che il più acuto degli azzeccagarbugli avrebbe difficoltà a decifrare.

L’estate si avvicina, gli uffici iniziano a svuotarsi e gli italiani sognano le meritate vacanze. Mare, sole, spiaggia. La spiaggia, proprio quella che stiamo immaginando in questo preciso istante, potrebbe non essere più accessibile tra qualche tempo. Perché il decreto sviluppo, contenitore di provvedimenti tra i più diversi, accorpati per accelerarne l’iter e ridurne la comprensione, contiene la tribolata disposizione sulla concessione di arenili, spiagge e stabilimenti balneari. Il testo, promulgato da Napolitano lo scorso 13 maggio, ha subito al photofinish due importanti modifiche. Il diritto di superficie viene ridotto da 90 a 20 anni e dovrà essere rilasciato nel rispetto dei principi comunitari di “economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità”. La nota del Quirinale precisa quanto segue:” [la nuova versione] è la risultante dalle consultazioni intervenute tra il governo e la presidenza della Repubblica secondo una corretta prassi di leale collaborazione istituzionale”. Questa si che è una novità.

Ciò che le agenzie non dicono, invece, è che il diritto di superficie è diverso dal diritto di concessione e che le autorità di Bruxelles avevano già inviato all’Italia due lettere di messa in mora per violazione della direttiva Bolkestein del 2006 sulle liberalizzazioni. Il raccordo con i principi comunitari si è quindi reso necessario per evitare una procedura di infrazione che avrebbe potuto costarci molto cara.

Andiamo con ordine. A legislazione vigente, i privati possono chiedere in concessione allo Stato una porzione di spiaggia per sei anni, rinnovabili. Scaduto il termine, sia la spiaggia sia tutto quello che sopra vi è costruito – anche dal privato concessionario – torna allo Stato poiché rientra nel demanio pubblico. Con il dl sviluppo, la concessione del terreno è separata dai beni immobili che il privato vi costruisce e, trascorsi i 20 anni, il primo torna allo Sato mentre i secondi possono farlo solo se l’autorità pubblica indennizza il privato per un valore pari agli immobili che ha costruito e di cui detiene la proprietà, di fatto rendendo più conveniente rinnovare la concessione piuttosto che ricomprare i diritti di superficie.

Secondo. L’Unione Europea ha messo in discussione i 90 anni di concessione previsti nel primo testo del decreto. Quota 90 era il tempo necessario e adeguato, secondo il governo italiano, per recuperare i soldi investiti. Il “quasi” secolo di concessione è sembrato eccessivo alle autorità europee. Eppure, le osservazioni di Bruxelles, prendono di mira principalmente i metodi di aggiudicazione della concessione piuttosto che la durata in sé, dato che per quella sarebbe necessario entrare nel merito delle singole spese effettuate. Finora l’Italia ha rinnovato quasi a occhi chiusi le licenze balneari, senza rimetterle all’asta pubblica né riaprendo il mercato a possibili concorrenti. Ora l’Ue chiede che il ventennio non si trasformi in un vitalizio per i fortunati aggiudicatori.

Le associazioni ambientaliste, a correzioni effettuate, insorgono e chiedono un ritorno al passato. I gestori degli stabilimenti si combattono tra entusiasmo e scetticismo mentre il Pdl leva gli scudi in difesa del decreto. Che il regime di concessione andasse modificato è cosa buona e giusta: non si può criticare l’azione governativa per aver “regalato le spiagge” pretendendo d’altro canto di restare intrappolati in quella inerme soporifera culla degli interessi costituiti. Il mercato c’è, è una realtà. Lealmente gestito e ben regolamentato può portare ottimi frutti in un Paese che di turismo sopravvive ma non ancora vive. Ciò non vuol dire che le norme debbano essere scritte per privatizzare quel piccolo, etereo, granulare pezzo di sogno che lascia tutti noi attesi e attoniti sul catalogo Alpitour. Ahi ahi ahi ahi ahi aì.

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