Il Tar dice no all’inglese come lingua esclusiva. Primato dell’italiano o paura dei docenti?

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di Emiliana De Santis

Con una sentenza che non ha mancato di suscitare aspre polemiche, il Tar lombardo ha accolto il ricorso di un centinaio di docenti del Politecnico di Milano contro la delibera del senato accademico che prevede l’insegnamento nella sola lingua inglese dal 2014. Amareggiato il Rettore del Polimi, più concilianti i toni del neo ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza che, tuttavia, non ha mancato di sottolineare i progressi ancora necessari ai fini dell’internazionalizzazione dell’istruzione superiore.

Nel maggio 2012, il rettore Giovanni Azzone, dichiarava di voler puntare su una formazione nella sola lingua inglese per i corsi di laura magistrale e i dottorati di ricerca – peraltro in buona parte già erogati in inglese, «per un ateneo internazionale» e «per formare professionisti pronti per un mercato globale». La dichiarazione si è quindi trasformata in una delibera del Senato Accademico contro la quale è subito giunto un ricorso di docenti assolutamente trasversale. Da architettura ad ingegneria, i professori si sono dichiarati contrari alla scelta di sostenere interi corsi in una lingua che non è la loro lingua madre, definendola addirittura una “scelta sciagurata” come ribadito da Emilio Matricciani, docente del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria. Con l’aiuto di Agostina Cabiddu, docente di diritto amministrativo del Polimi, le voci contrarie hanno fatto fronte comune, a quanto pare a ragione. Il Tar ha infatti ritenuto che la scelta dell’inglese esclusivo – si legge nel testo della sentenza – “incide in modo esorbitante sulla libertà di insegnamento e sul diritto allo studio”.  Secondo la professoressa Cabiddu, la sentenza “accoglie in pieno le nostre ragioni. Dimostra tutta la lesività della decisione impugnata. È una vittoria non soltanto nostra, è una vittoria della ragione e della cultura».

Non la pensa così il rettore, che tanto aveva sostenuto la proposta, e una nutrita parte degli studenti, confortati dalle parole del ministro Carrozza: “Le sentenze si rispettano, però capisco molto bene il rettore del Politecnico anche perché i finanziamenti scarseggiano e sembra facile dire che bisogna tenere un corso sia in inglese che in italiano”. “Offrire corsi in inglese”, prosegue, “significa mettere gli studenti in grado di entrare nel mondo del lavoro nazionale ed internazionale, perché nei luoghi di lavoro dove andranno questi ingegneri, anche in Italia, dovranno maneggiare perfettamente il linguaggio tecnico della lingua inglese”. Il dibattito si inserisce in una annosa questione, ormai da anni al centro di polemiche e proposte, in cui puristi della lingua e difensori della patria si scontrano e si incontrano con  professori e studenti. Risale  al 2007 il disegno di legge della Commissione Affari Costituzionali, approvato alla Camera, con cui si proponeva una legge costituzionale che, modificando l’art.12, avrebbe visto l’aggiunta di un secondo comma, affermante il carattere ufficiale della lingua italiana. “L’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica nel rispetto delle garanzie previste dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali”, garanzie già espresse dall’art. 6 a tutela delle minoranze linguistiche. Il carattere ufficiale della lingua italiana è di fatti desunto dal suo essere maggioritaria e, per differenza o termine di paragone, dagli Statuti della Regioni Autonome ma non è mai stato assurto al rango costituzionale poiché i costituenti lo hanno ritenuto implicito. Ora che invece l’Italia è sempre più terra di immigrazione e visto lo sforzo che molti giovani stanno facendo per entrare a buon diritto nel mercato internazionale, la questione si è fatta urgente e necessaria.

Non si tratta di difendere la cultura e nemmeno di etichette. Sono in molti tra linguisti, sociologi e insegnanti a lanciare l’allarme sul crescente numero di studenti che non è in grado di leggere e comprendere a pieno la propria lingua. Un gravissimo vulnus se si pensa che un’intera generazione è solo parzialmente in grado di essere effettivamente cittadina, dal momento che solo colui che comprende è capace di scegliere autonomamente. Questo tuttavia non deve ingannare rispetto alla scelta dell’inglese come lingua univoca nei corsi di laurea oltre il grado triennale. Imparare una seconda lingua presuppone conoscere bene la propria, averne così grande consapevolezza da poter aprire la mente a un’altra struttura grammaticale e di pensiero. Perché una lingua è cultura, non è solo parola. Il mercato internazionale cui sempre più spesso anche i politici indirizzano i giovani (come Giolitti promuoveva le campagne di colonizzazione ai contadini che non avevano in Italia più terra da coltivare) parla russo, arabo, cinese e portoghese e, per sapervi ben collocare il made in Italy di prodotto e di intelletto, è indispensabile carpirne i concetti, i modi, i tempi. Pretendere di lanciare i giovani verso un futuro di cui non decodificano i termini, è scelta avversa e contraria alla logica: il domani lo si vede in vetrina e con esso cresce il desiderio di farvi parte, deluso e frustrato dalla mancanza di opportunità.

Ai docenti l’esame di coscienza: è probabile che in molti tra gli studenti, l’inglese lo conoscano già bene, bisogna quindi capire quanto loro stessi siano all’altezza della sfida di svecchiamento cui il tempo li sottopone.

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