Diario da Taranto – La cultura ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici

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di Greta Marraffa

                                                                                            “Sventurata la terra che ha bisogno d’eroi” (Bertold Brecht)

L’operazione di smantellamento dell’università pubblica è in atto da un bel po’ di anni. Gli effetti e le conseguenze,  si palesano col tempo e colpiscono maggiormente le realtà sociali in cui lo sperequamento  e il divario tra Nord e Sud d’Italia, si manifestano con maggiore nitidezza.

A Taranto, l’università pubblica, ha vita, relativamente breve: i primi corsi di laurea si costituiscono venti anni fa. Nascono costole di seconde facoltà, vincolate supinamente a Bari. L’Assenza assoluta di autonomia, contribuisce a rendere sempre più fittizio, un adeguato servizio, inidoneo a soddisfare le esigenze del territorio e dell’humus studentesco, presente sul territorio.

Il d.lgs. 47/ 2013, varato dall’ultimo governo, ha previsto una serie di tagli all’università pubblica, colpendo maggiormente le terre calde del meridione, tra questi, la possibile chiusura di alcuni corsi di laurea della II Facoltà di Ingegneria, presente a Taranto.  Il centro di ricerca di Ingegneria Civile per l’Ambiente e il Territorio, vedrà chiudere la “saracinesca” della sua magistrale, riducendo il piano di studio unicamente al corso triennale, costringendo gli studenti,  a dover emigrare necessariamente altrove, per poter proseguire gli studi di specialistica. Una vera e propria fuga di cervelli, un vero e proprio omicidio alla cultura, alla ricerca e ai saperi, che consumato in questa terra, pesa come macigno.

Il 22 Febbraio, si è svolta pressola II Facoltàdi Ingegneria di Taranto, l’assemblea studentesca, convocata da alcune associazioni , rappresentative delle istanze e delle esigenze del corpo studentesco.  Nell’aria si può assaporare, l’odore della mobilitazione e della rivolta studentesca. Appetito che  viene immediatamente frenato, alla lettura del programma della giornata che prevede la presenza del  Vescovo di Taranto, Mons. Filippo Santoro ed  alcuni esponenti di Confindustria.

Auto blu e “tappeto rosso” accolgono la passerella di uomini e donne, esponenti della politica nazionale e locale. Volti, visibili solo in televisione, nei più seguiti talk show, appaiono quasi irreali, circondati da guardie del corpo e da giornalisti in visibilio. La platea studentesca attende impaziente.  Introduce il preside della facoltà, passando il microfono al magnifico rettore. “Quale chiusura, ragazzi?”- sostiene in maniera convincente, il rettore-“ Non abbiamo alcuna responsabilità, questo vostro disagio è il risultato degli effetti terribili della Riforma Gelmini del 2008 che ha disintegrato completamente le Facoltà riducendoli a Dipartimenti, completamente sganciati dalla realtà territoriale”. La domanda sorge spontanea: allora, per quale motivo, le mobilitazioni  degli anni precedenti, sono state represse con  forza e violenza? Evidentemente “avevamo ragione”- sostiene una studentessa delle file retrostanti.

Parole in libertà e tanta, troppo retorica, condite dall’ assenza di proposte e di immaginario. La realtà universitaria tarantina, riflette inevitabilmente la pochezza e l’aridità della mobilitazione della città, dormiente e silente. La soluzione si ricerca nel miracolo divino o nel possibile ingresso nelle aule dei centri di cultura, del privato o dell’impresa,  inadatti ad offrire servizi di ricerca e di studio, svincolati e liberi da interessi lucrativi o lobbistici. A sconfortare sempre più, la voglia accesa di sperimentare anche in facoltà, nuove forme di partecipazione e di democrazia, la presenza di una sfilata istituzionale, antipatica ed inopportuna.

Ribellarsi è giusto quando ti vien sottratta la possibilità di riuscire ad emanciparti, in un territorio come questo,  terra di conquista, di voti e di consenso. Consenso, che vien ricercato, in vista delle elezioni politiche, in cui anche la questione universitaria diviene magicamente tema centrale di discussione. Pretendere e rivendicare di poter conseguire i propri studi, nella propria terra, è un diritto sacrosanto, alla stregua di quello che inevitabilmente conduce la stragrande maggioranza dei miei coetanei, a fare le valigie e prendere il primo treno, per andar via.

Lo scenario è desolante. L’aula magna si svuota notevolmente. Diviene più fredda e grigia. Al tavolo dei relatori, onorevoli e padri spirituali, esperti oratori e grandi affaristi. Tutti rigorosamente impettiti.

La sintesi perfetta di sacro e profano.  Il cattivo gusto e l’aridità delle analisi, contornate da un paesaggio tetro ed angusto. La voglia di ribellione si spegne notevolmente, dinnanzi all’incapacità di elaborare proposte di effettivo cambiamento.

Si, perché la verità è che questa città non vuole “avanzare”. Perché sarà inutile parlare di Ilva, ambiente e salute, se non si è in grado di riuscire a  discutere anche di altro. Perché una città, con una tasso di mortalità tumorale così elevata, necessiterebbe di centri di studio e ricerca, per permettere ai cittadini di potersi curare o ancora meglio, di poter prevenire i mali peggiori.

Ma si sa, a sostenere queste riflessioni, si è davvero in pochi: perciò ti risbatteranno in un angolo, considerandoti eretico o folle. Quell’eresia che è la nota discordante, all’interno di uno spartito che racchiude una musica lenta e statica.

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