Istat, allarme disoccupazione. E l’Ue avverte: “Alto rischio povertà”

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di Emiliana De Santis

L’Unione Europea non è particolarmente tenera nei nostri confronti da qualche giorno a questa parte. Forse è per questo che dapprima ha smentito le critiche mosse all’Imu e poi annunciato, per bocca del Commissario Olli Rehn, che l’Italia ha fatto passi da gigante nel contrasto alla recessione grazie alle misure di austerity del Governo Monti. Ci si è resi conto che un Paese in guerra elettorale non è il bersaglio da prediligere, sebbene un richiamo sia necessario a fronte di un tasso di disoccupazione giovanile che ha toccato in novembre il record assoluto del 37,1% e di una pressione fiscale pari a 45,3 punti rispetto al Pil.

I dati diffusi lo scorso martedì dall’Istat sono preoccupanti ma lo sono ancor più le conclusioni a cui è giunta la Commissione Europea presentando l’annuale Employment and Social Developments in Europe Review secondo il quale la crisi economica che ha colpito l’Unione, “ha drammaticamente aumentato i rischi di esclusione sociale di lungo periodo”. “Un trend preoccupante” ci ha tenuto a ribadire il commissario Ue agli affari sociali Lazslo Andor, “che si è imposto in maniera divergente tra il Nord e il Sud del gruppo Euro”. Per un Paese come la Danimarca, in cui il rischio di oltrepassare la soglia della povertà è scarso mentre i meccanismi di tutela e di uscita da quello stato sono relativamente alti, ce n’è uno come la Germania o la Francia in cui le riforme del mercato del lavoro e dell’istruzione soprattutto, contribuiscono in maniera significativa ad aiutare chi pure in povertà e in precarietà ci si ritrova a causa della crisi. Fanalino di coda i Paesi del Sud Europa e del Baltico: la disoccupazione giovanile (ovvero l’incidenza dei disoccupati sul totale degli occupati o in cerca nella fascia di età compresa tra i 15 e i 24 anni) è al 57% in Spagna e in Grecia, al 37,1 in Italia. Il dato ellenico e spagnolo non ci deve far sembrare meno duro il nostro. Nella penisola, di fatti, il tasso di disoccupazione su base annua è cresciuto di oltre 20 punti percentuali, insieme al tasso di inattività: i giovani non solo abbandonano gli studi – il forte calo delle immatricolazioni ne è testimone – ma nemmeno cercano lavoro, scoraggiati dagli infruttuosi risultati.

Il rapporto Ue prende in considerazione tutti questi numeri e punta il dito sia contro la mancanza di coraggio nel riformare taluni sistemi produttivi e scolastici sia contro il mismatching tra la formazione acquisita e il lavoro svolto che in Italia tocca punte considerevoli. Molti fanno inoltre notare che nel nostro Paese la pressione fiscale è decisamente alta, ben 5 punti in più rispetto alla media europea ed incide sia sui consumi sia sul costo del lavoro (CLUP) troppo alto nel bel paese a margine di una produzione e di un reddito nazionale in calo vistoso. La capacità di spesa delle famiglie diminuisce giorno dopo giorno e con essa i consumi, quindi l’offerta di beni e infine, in questo circolo del valore, la richiesta di forza lavoro, per ripercuotersi di nuovo sui consumi. Mancano inoltre innovazione, sviluppo, ricerca e soprattutto il coraggio e la forza di fare impresa, di se stessi prima di tutto. Il passo del gambero sta caratterizzando questa nostra economia che certo non è aiutata dall’andamento generale dell’Eurozona, dell’Unione e dell’area Ocse, ma che stenta più degli altri a riprendersi poiché non riesce a riformare se stessa.

“E’ improbabile che l’Europa vedrà molti miglioramenti socioeconomici nel 2013, a meno non faccia maggiori progressi anche nella risoluzione credibile della crisi, trovi risorse per gli investimenti necessari e faccia funzionare l’economia reale” aggiunge ancora Andor. E il flusso reale passa dall’occupazione, da un lavoro che non è il solo stipendio a fine mese ma la dignità di svegliarsi ogni mattina per contribuire al benessere della propria famiglia e del proprio paese. È nostro il record di inattivi, è nostro uno dei minori tassi di occupazione femminile e di abbandono scolastico, tre variabili collegate da un’impostazione sociale e culturale mai veramente scalfita dall’impegno politico. E mentre la campagna elettorale si nutre di simboli, nomi e share, i giovani smettono di interrogarsi sul futuro poiché non gli è dato farlo nemmeno sul presente.

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