Da perfetto sconosciuto a candidato bruciato, Carlo Tavecchio e l’indecenza italiana

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di Fabio Grandinetti

Se, come si sente spesso dire, lo sport è una metafora della vita, il calcio nostrano oggi è uno specchio che ritrae fedelmente la società italiana. Un piccolo Paese dove ancora nasce il talento, gestito da un sistema di potere inquinato da interessi privati e di parte, popolato da piccoli grandi personaggi che nel management sportivo, da molti paragonato (a ragione) alla politica, trovano terreno fertile per sviluppare con veemenza le proprie capacità di autoconservazione a discapito della collettività e di una lungimirante visione sistemica. Vox populi, vox Dei. A guardare il calcio italiano oggi viene davvero difficile contestare la banalità di chi descrive con sdegno quell’universo di potere misto a ignoranza che muove miliardi di euro.

È ancora più difficile farlo dopo venerdì scorso, dopo la gaffe di Carlo Tavecchio all’assemblea della Lega Nazionale Dilettanti da lui stesso presieduta. «Le questioni di accoglienza sono un conto – ha affermato il candidato alla presidenza della Federcalcio – quelle del gioco un altro. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che “Opti Poba” è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così». Sono queste le parole divenute ormai famose di colui che era – il passato è d’obbligo – il favorito a guidare il calcio italiano in crisi.

Nato a Ponte Lambro 71 anni fa, prima di entrare nel mondo del calcio Tavecchio è stato un esponente della Dc, sindaco del proprio comune per diciannove anni consecutivi. Il suo secondo piccolo impero se lo è conquistato nella Lega Nazionale Dilettanti di cui è presidente dal lontano 1999. Un uomo conosciutissimo in certi ambienti, un perfetto sconosciuto per l’opinione pubblica, Tavecchio è l’esempio perfetto di come, lontano dai riflettori – per sua fortuna a giudicare dall’effetto che l’attenzione mediatica pare provocargli – si possa costruire un redditizio orticello di influenze in un ambiente come quello calcistico.

La sua favola da stimato e autorevole sconosciuto è finita quando è stato designato come candidato dell’ancien régime del calcio, appoggiato da Lega di serie A, serie B e, ovviamente, dai Dilettanti. Lo scenario è reso particolarmente paradossale dal fatto che il contendente Demetrio Albertini è sostenuto da un’opposizione rottamatrice guidata da Andrea Agnelli e Barbara Berlusconi, non proprio due filantropi progressisti estranei al potere italiano. Due che, senza addentrarsi nei dettagli dei programmi federali, spingerebbero a parteggiare spontaneamente per il perfetto sconosciuto. Numeri alla mano, Tavecchio era già virtualmente seduto sulla poltrona più prestigiosa della Figc, fino a venerdì, fino alla frase finita nel mirino di un movimento d’opinione che, dai social fino a Montecitorio, sta appassionando l’Italia sotto l’ombrellone.

Peccato, ci era simpatico Tavecchio. Un po’ per la sua figura alla Oronzo Canà, un po’ perché chi assume come criterio di giudizio l’età, nel calcio come in altri ambiti, dimostra carenza di argomenti. Ma il calcio italiano, uscito con le ossa rotte dagli ultimi due mondiali, dopo un anno in cui tante curve sono rimaste deserte per discutibili sanzioni per discriminazioni territoriali o per meno discutibili casi di razzismo, un calcio povero di soldi e di idee, che allontana tutti dagli stadi elemosinando i soldi delle tv, non può essere affidato a uno come Tavecchio. Uno che alla prima vera uscita pubblica, a pochissimi metri dal traguardo, non riesce a tenere a bada la propria villana e selvaggia inadeguatezza. Il becero qualunquismo che si è preteso di combattere chiudendo le curve non può rientrare dalla porta principale, è una questione di decenza.

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