La Repubblica centrafricana dilaniata dagli scontri tra Séléka e anti-balaka

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Repubblica centr.di Azzurra Petrungaro

È l’ennesimo scontro religioso a dilaniare dalla fine del 2012 la Repubblica centrafricana. Musulmani contro cristiani, un eterno antagonismo che marchia indelebilmente tutti i territori del Sahel, l’area di confine tra il deserto del Sahara e l’Africa centrale. Qui le potenze coloniali hanno tracciato le loro linee di confine, disegnate dalla penna degli interessi e del potere. Le differenze etniche, religiose e culturali sono state totalmente ignorate, abbandonando la popolazione locale a nuovi e sconosciuti assetti geografici che ancora oggi non sono stati assorbiti.

Nell’inverno di due anni fa i ribelli Séléka, gruppi armati a maggioranza musulmana provenienti dal nord, lanciano una campagna militare contro il Presidente François Bozizé. Lo costringono alla fuga e lo sostituiscono con Michel Djotodia. Da questo momento gli scontri tra Séléka e i sostenitori di Bozizé hanno inizio. Si formano le milizie di autodifesa contro i ribelli musulmani, formate dalla popolazione cristiana, le anti-balaka (anti-machete), che si rendono responsabili di torture e linciaggi ai danni di civili musulmani, come rappresaglia indiretta contro i Séléka.

Nel gennaio di quest’anno Djotodia, prendendo atto dell’impossibilità di controllare gli eventi del Paese, ha rassegnato le sue dimissioni ed è stato nominato un governo provvisorio guidato da Catherine Samba-Panza, nuove elezioni dovrebbero essere indette entro il prossimo febbraio.

In risposta ai violenti disordini che scuotono la Repubblica centrafricana, la Francia invia nel 2013 un contingente militare al fine di stabilizzare la situazione nel Paese, mentre le Nazioni Unite lanciano la missione Misca. Nell’aprile di quest’anno l’UE ha ufficializzato l’invio di una sua missione, mentre l’ONU ha annunciato l’incremento di dodicimila caschi blu entro settembre.

Il risultato sono centinaia di morti e la fuga di centinaia di migliaia di civili e il conflitto non accenna a spegnersi, tutt’altro.

Lo scorso 25 maggio vengono mutilati e linciati tre giovani musulmani nel quartiere PK5 a Bangui. I ragazzi stavano prendendo parte a una partita di calcio interreligiosa. Il mercoledì successivo, sempre nella capitale, si è registrato il peggior attacco compiuto da milizie islamiche negli ultimi cinque mesi, verosimilmente in risposta all’attacco subito dai tre civili tre giorni prima. Uccidono diciassette persone nella chiesa di Nostra Signora di Fatima e ne rapiscono altre ventisette.

Tre giorni fa il Presidente ad interim Samba-Panza ha definito l’attacco alla chiesa di Notre Dame a Bangui, come un “attentato terroristico”, secondo una fonte militare sempre il 30 maggio sono scese in piazza centinaia di persone per chiedere le dimissioni del governo di transizione e la ritirata delle forze straniere. La polizia ha aperto il fuoco al fine di disperdere i manifestanti, provocando la morte di almeno due persone.

Paradossalmente nello stesso giorno le forze francesi Sangaris e la Missione di sostegno alla Repubblica centrafricana (Misca), hanno lanciato un appello invitando i cittadini di Bangui a “non opporsi ai movimenti internazionali, a non costruire barricate e a non ostacolare le operazioni”.

Nel frattempo le Nazioni Unite denunciano l’operazione di pulizia etnica che è in corso nel centro e nel sud del Paese e i morti dell’ultima settimana non hanno di certo placato la cruenta acredine tra Séléka e anti-balaka.

La popolazione è costretta a nascondersi nella propria terra, trovando rifugio nei cespugli e nutrendosi di bacche. I più fortunati attraversano il confine e cercano riparo negli Stati confinanti, viaggiando su camion affollati, seduti sui propri averi, spesso feriti e malnutriti.

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