Braccialetti rossi: nuova fiction?

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di Beatrice De Caro Carella

Parlare della fiction, ovvero della serie TV “all’italiana”, non è mai facile. Si ha anzi sempre un po’ come l’impressione d’essere costretti ad avventurarsi dentro un campo minato. Da un lato, si continua a sperare (con una certa crescente irritazione per il nostro cocciuto ritardo) che prima o poi anche il volto della TV italiana subisca un cambiamento; (anzi no, siamo fuori tempo massimo per i cambiamenti, sarebbe bene cominciare a parlare di rivoluzioni). Dall’altro, si lotta con l’irrazionale impulso, forse il segno d’una qualche forma di patriottismo residuale, di non voler far torto eccessivo al prodotto nostrano, di volerlo in qualche modo giustificare. In parole povere, si tende a cercare, buonisticamente, di salvare il salvabile.

Ecco allora che ci si domanda se non si stia in fin dei conti giudicando con eccessivo cinismo, se la critica non stia degenerando in un’attitudine ipercritica, e se di fronte dell’evidente inadeguatezza tematica, registica, visiva e narrativa dei nostri prodotti,  non si possa in fin dei conti semplicemente chiudere un occhio. Perché il contesto produttivo italiano è difficile, e vanno anche giudicate le buone intenzioni per quello che sono; rallegrandosi della gradevolezza dei personaggi, della leggerezza della trama, del (dubbio) valore dei dati di share, delle credibili (e mediocri) performance attoriali;  delle nostre “storie forti e importanti” come vengono spesso pubblicizzate dalla stampa.  Storie di ragazzi alle prese con la malattia, nel nostro caso. Raccontate con “coraggio e leggerezza”.

È con queste premesse che è andata in onda ieri sera su Rai1 la prima puntata della nuova fiction pubblicizzata per mesi da casa Rai. Braccialetti rossi, si chiama, ed è un format acquistato dagli spagnoli, che prende spunto dal bestseller di Albert Espinoza e che ha per protagonisti sei ragazzi che vivono il dramma quotidiano della malattia ma cercano di sconfiggerne l’orrore del cancro appellandosi alla forza dei sogni, al loro desiderio d’amicizia e di trasformazione del mondo. Sceneggia la serie Sandro Petraglia, storico protagonista dei nostri schermi, da Mary per sempre a La meglio gioventù. Dirige i giochi Giacomo Campiotti, regista che avuto in passato i suoi riconoscimenti (Come due coccodrilli, Zivago). Nel cast, accanto a Laura Chiatti, figura anche la brava Carlotta Natoli.

Il tema è certamente una sfida, inedito per l’Italia. Ma non è nostro, quindi dei modi della sua trattazione – di questo curioso miscuglio in chiave pop tra sofferenza e slancio vitale, visto con gli occhi dei giovani – non abbiamo merito e ne siamo, al tempo stesso, dispensati. La sceneggiatura di Petraglia, infatti, segue pedissequa l’originale spagnolo, attaccando con gli stessi toni da fiaba “fanciullesca” per poi addentrarsi tra le colorate sale d’ospedale della serie. Con un’unica eccezione: un accento ben più marcato su tutti quegli elementi patetici che sempre riescono a dare alla serie italiana toni stucchevoli, più che drammatici. In parte lo si deve alla tecnica del voice over del bambino in coma (idea non italiana, direte voi. Ma i modi della narrazione possono anche variare originalmente in un adattamento); in parte, lo si deve al didascalismo con il quale lo spettatore viene imboccato con le informazioni fondamentali su desideri, paure, ansie, psicologie e rapporti tra i personaggi. Regia e montaggio, dal canto loro, ne escono senza infamia e senza lode: non c’è un’inquadratura che non racconti qualcosa di diverso dal mero trasferimento d’informazioni tra personaggio A e personaggio B, non una sola immagine che costruisca un sentimento e lasci parlare il linguaggio filmico per articolare il quale nasce. Dello strumento “cinema” non rimane niente: il racconto si costruisce con sovraeccesso di parole, macchiette ed espressioni da soap, mai ricorrendo alle potenzialità alchemiche del linguaggio dello schermo.

Le musiche, come da copione, (anche spagnolo) compongono una colonna sonora in chiave pop dall’effetto mickymousing (tipicamente serial italiano e più che detestabile), sulle note dei successi di Laura Pausini, Vasco Rossi, Niccolò Agliardi, Tiziano Ferro, Emma Marrone; per fare una TV che piaccia ai giovani pare. Sul valore artistico del prodotto, gli attori, naturalmente non si sbilanciano. E il regista esalta “la forza del tema trattato”.

E dunque, cosa si può aggiungere di costruttivo su una serie così disperatamente priva di bellezza, nel momento in cui appare chiaro che, nonostante i buoni propositi, prescindere dalla nostra onestà intellettuale ci risulta impossibile? Possiamo aggiungere che, a questo punto della storia della fiction italiana (e visto e considerato che il progetto Braccialetti rossi aveva dalla sua nomi in grado di far bene) i conti non tornano; che la svogliatezza con la quale tanto la regia quanto la piatta fotografia sono condotte ci fa pensare che nella TV italiana si faccia il minimo per ottenere il massimo risulato (da dati d’ascolto che si basano più sull’assuefazione d’un pubblico intenzionalmente mantenuto a livelli di fruizione che non richiedono sforzi); che aspettarsi qualcosa di diverso, di interessante p di stupefacente, dalla Rai di questi anni sta diventando sempre più come volersi ostinare a credere in un Dio che non c’è, perché la TV come l’hanno conosciuta i nostri padri, appare chiaro, non risorgerà dalle sue ceneri. Non per sua volontà almeno.

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