Voci dal Festival: tra Wes Anderson e i Tarantiniani

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di Beatrice De Caro Carella

È stata la settimana delle grandi anteprime al Festival Internazionale del Film di Roma, ottava edizione d’una manifestazione in fin dei conti ancora abbastanza giovane, eppure dalle grandi aspirazioni e successi. Ospitata come di consueto presso le prestigiose sale dell’Auditorium Parco della Musica, del MAXXI, e inoltre svoltasi tra la Casa del Cinema e le location di via Veneto – il cinema Barberini e l’Hotel Bernini Bristol – la manifestazione si è chiusa ieri, giorno 17 Novembre con l’assegnazione del Marc’Aurelio d’Oro per il miglior film a Tir di Alberto Fasulo, miglior regia a Kiyoshi Kurosawa per Seventh Code e miglior sceneggiatura I Am Not Him di Tayfun Pirselimolu.

Il programma dell’anno è stato completo, di certo interessante, anche se forse non sufficientemente fitto come ci si aspettava. A memoria di chi scrive, tra le esperienze da ricordare si annoverano: l’indescrivibile malinconica dolcezza del visionario Her, l’icastica e sardonica forza di denuncia di Dallas Buyer Club; l’esilarante ritmo del trash-neo-melodico di Song’e Napule, l’ironica leggerezza giallistica di Je Fais le Morte con, acconto, quella fantastica de Au bonheur des ogres (adattato dallo stesso Daniel Pennac); e poi ancora la perfezione visiva e registica di Tales From the Dark (volume B e soprattutto l’originalità del secondo episodio) e persino l’insensatezza splatter-horror del cannibalistico The Green Inferno. Da recuperare e su cui scommettere, invece si consiglia: l’argentino Metegol 3D, cartone toystoriano di Juan José Campanella (Il segreto dei suoi occhi) e il folle Las Brujas de Zugarramurdi (si premette soltanto che un mimo-cristo di strada mitra alla mano, in compagnia d’altri disperati come lui, partecipa alla folle rapina di 25.000 fedi nuziali, mentre sullo sfondo una congrega di streghe vuole prendersi anime e bottino).

Ricordiamoci però che siamo sempre nella capitale però e da un Festival come questo, seppur giovane, ci si aspetterebbe meraviglie. Quantomeno nei termini del calendario delle proiezioni. Invece l’organizzazione sembra ancora da perfezionarsi: numerosi i tempi morti, poche le repliche e sicuramente qualche incastro mal riuscito. I corti poi, seppure interessanti (opinione personale) andrebbero proiettati in testa ai lungometraggi, rimettendoci il guadagno per la singola proiezione forse, ma consentendo un migliore impiego degli sforzi di chi fruisce e un’ottimizzazione dei tempi di consumo. Peccato. Si vorrebbe veder tutto ma un po’ la location, bella e spaziosa tanto quanto fuori mano e mal collegata (che le navette non bastino è evidente), un po’ la dispersione e diradazione del programma penalizzano chi vorrebbe farne un momento di vera crescita culturale, e si ritrova invece stremato dalla solita disorganizzazione organizzata. La cultura d’un paese, d’altronde, si misura anche nella sua capacità di attivare sforzi sincronizzati, per offrire un servizio, non solo un bene a consumo. Rimane da chiedersi cosa impedisca a un Festival della capitale di raggiungere un suo livello d’eccellenza attraverso quei piccoli accorgimenti d’attenzione alla “clientela” che potrebbero fare la differenza. E garantirne la sopravvivenza. Ma chiusa la polemica torniamo al Festival.

La selezione dei film “in” o “fuori” concorso, ad ogni modo, non delude. Né tantomeno le scelte dei percorsi d’approfondimento o degli ospiti d’oltreoceano. Anzi da questo punto di vista, il pubblico non può che ringraziare. Per le chiacchierate con quel genio visionario di Spike Jonez (Essere John Malkovich, Her) come per la presenza in sala della sensuale e bravissima Scarlett Johansson, in compagnia del magistrale Joaquin Phoenix (The Master); per l’incontro con John Hurt, attore consumato, come per l’intervista a Jonathan Demme (Il silenzio degli innocenti, Philadelphia); per le risate in sala in compagnia dell’incredibilmente modesto Wes Anderson (I Tenenbaums, Moonrise Kingdom) come per la sregolatezza senza peli sulla lingua di Alex de la Iglesia (Crimen perfecto, La ballata dell’odio e dell’amore). Dulcis in fundo, fa la sua comparsa al MAXXI, persino Eli Roth (Cabin Fever, Hostel e il sopracitato The Green Inferno), in compagnia di produttori e registi d’un cinema italiano che fu. Quel cinema di genere, quando anche da noi lo si praticava, un po’ pulp, un po’ kitch, un po’ trash e un po’ horror, che tra ascesa e tramonto del western, e l’avvento di quello che fu spregiativamente definito il poliziottesco fece storia; anche oltreoceano, trovando nuova vita nelle rielaborazioni senza precedenti di Quentin Tarantino.

Il bilancio si chiude dunque, comunque, in positivo, se non altro – oltre che per le belle pellicole – per la sensibilità “avanguardista” nella selezione degli ospiti.

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