Rotazione o rivoluzione? la legge sul femminicidio ci gira intorno

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di Mariacristina Giovannini

Diventa legge, con 143 voti a favore e tre contrari, il decreto sul contrasto alla violenza di genere, che passa al Senato senza ulteriori modifiche rispetto a Montecitorio.

Il provvedimento si impone all’attenzione pubblica come legge contro la violenza sulle donne, ma in realtà contiene misure eterogenee, fra loro accomunate esclusivamente dal carattere d’urgenza.

Frodi informatiche e furti di rame, Tav e ordine pubblico, protezione civile e potenziamento del Corpo dei vigili del fuoco. In questa legge-frullatore c’è davvero di tutto e il risultato pronto da bere è l’ennesimo pacchetto sicurezza, che il Governo vende come merce fresca grazie alla magica parolina “femminicidio”.

Una parolina che apre le porte a un’approvazione quasi unanime, e fa da rapido lasciapassare a una serie di temi che avrebbero meritato tempi più lunghi di digestione, mentre il decreto legge – arrivato in Senato a una manciata di giorni dalla scadenza – impone un implicito aut aut: immediata (e incondizionata) approvazione o decadenza.

Una legge “ricatto” quindi, che moltiplicando gli input e i temi crea ulteriore confusione attorno al tema della violenza sulle donne, affrontato superficialmente, con poca cognizione e sulla scia dei più recenti fatti di cronaca.

Una legge “brutta” che tradisce un fraintendimento dei suoi stessi obiettivi e individua come principale strumento di contrasto al femminicidio (inteso come allarme sociale) l’inasprimento del trattamento punitivo degli autori di tali fatti.

Una legge “repressiva” – infine – che ridefinisce in modo oscuro i confini tra Stato e cittadini. In questo caso, tra uno Stato Padre – autoritario e padrone – e una cittadina Figlia, inabile a decidere in piena autonomia della propria vita.

È questo uno dei punti più critici del provvedimento, richiamato all’articolo 1: l’irrevocabilità della querela in caso di evento reiterato e, in casi reputati meno gravi,  la concessione di remissione dietro valutazione del magistrato.

Questa misura in particolare – apparentemente rivolta a difendere la donna, anche da se stessa – è in realtà lo specchio di uno sguardo viziato in materia di contrasto alla violenza di genere.

La donna archetipica che emerge da questa legge è una donna che ha bisogno di essere “protetta” e non messa in condizione di far valere i propri diritti, come qualunque altro cittadino. Nell’ombra lunga della “protezione” intravediamo ancora una volta il pericolo di donne “sotto tutela”, incapaci di autodeterminarsi, definite soltanto in relazione a un padre, un fidanzato, un marito e – in questo caso – a uno Stato padrone che eccede pericolosamente il suo ruolo.

Una legge scritta senza tenere conto delle esperienze e delle sensibilità necessarie, che bypassa il femminismo, che rimuove le battaglie che hanno portato all’evidenza politica e civile il tema della violenza sulle donne.

E non c’è braccialetto elettronico per stalker che tenga. Non c’è inasprimento di pena sufficiente, né parametro di Stato per “incrociare” gravità del crimine e grado di affettività tra molestatore e molestata.

La soluzione non è un pacchetto sicurezza. La strada per il contrasto al femminicidio non è rapida. Non è d’urgenza. Non si trova tra un articolo sull’ordine pubblico e uno sugli stati di emergenza.  La soluzione non è questa legge. Ci vuole tempo. Ci vuole impegno. Ci vogliono risorse. Ci vuole educazione al Genere, e un investimento culturale serio.

Quello che serve è una rivoluzione, e noi invece continuiamo a ruotare intorno al problema.

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