Telecom, vecchi errori e nuove paure

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di Fabio Grandinetti

La storia di Telecom Italia come azienda pubblica di telecomunicazioni, discendente di Stipel e di Sip, è brevissima. Appena tre anni, dal 1994 al 1997, quando durante il governo Prodi venne sancita la privatizzazione dell’azienda sotto la presidenza di Guido Rossi. Lo Stato uscì quasi completamente lasciando spazio ad un “nocciolo duro” di imprenditori italiani, capeggiati dagli Agnelli. L’esperimento fallì e in quindici anni la Telecom, con una serie infinita di cessioni, acquisizioni e partecipazioni illustri (Olivetti, Benetton, Pirelli) ha accumulato quasi 30 miliardi di debiti.

RETI E SERVIZI – È indubbio che alcune aziende godono (o soffrono, dipende dai punti di vista) di un vincolo che, tanto nelle decisioni aziendali, dirigenziali e strategiche, quanto nell’immaginario collettivo di una società, le lega in maniera quasi indissolubile alla concezione del territorio, dello Stato. Telecom è una di queste, ma come le altre vive sul mercato, accumula debiti (più che ricavi) e, esattamente come le altre, nasce dall’imponente processo di privatizzazione e di liberalizzazione messo in atto a partire dagli anni ’90. A dire il vero il caso Telecom conserva una peculiarità: a differenza delle altre aziende attive in settori strategici per lo sviluppo nazionale (ferrovie, autostrade, elettricità, gas ecc.) non ha subito lo scorporo e ha conservato la gestione dei servizi e delle infrastrutture, mantenendo il controllo della Rete. Per oltre un decennio, dunque, Telecom ha goduto di una posizione privilegiata all’interno di un mercato, quello delle telecomunicazioni, distorto da tale anomalia.

LE PREOCCUPAZIONI DEL COPASIR – Da oltre quindici anni, pertanto, Telecom è quotata in borsa e vive nel mercato, obbligata ad osservarne le leggi tutto sommato imparziali. Improvvisamente (anche se l’accordo fu raggiunto nel lontano 2007), quando la spagnola Telefonica acquisisce il controllo dell’azienda, quest’ultima diviene essenziale per l’interesse nazionale. I dubbi sulle buone intenzioni spagnole riguardo gli investimenti sulla Rete e sulla banda larga scuotono l’opinione pubblica e  la politica nazionale, in nome di un concetto, quello dell’italianità, retorico e sfuggente. Alle preoccupazioni sulla Rete si aggiungono i “rischi di sicurezza” evidenziati dal Copasir e dai Servizi Segreti connessi alla quantità di informazioni economiche e militari che passano per la rete di telecomunicazioni. Come se l’accesso per i privati a tali informazioni fosse un problema di cittadinanza.

L’IPOTESI GOLDEN RULE – A ben vedere, gli errori risalgono a dieci anni prima, a quando lo Stato arretrava nel controllo di un importantissimo settore industriale, palesando con il mancato scorporo e con l’affidamento ai privati del comparto infrastrutturale tutta la propria avventatezza. Il deputato di Scelta Civica Stefano Quintarelli, esperto di problemi della Rete, ha recentemente dichiarato: «Credo che il governo Letta debba dare attuazione alla cosiddetta Golden Rule che permette al governo di fissare alcuni paletti, regole che devono essere seguite nell’interesse nazionale e che sono l’unica limitazione consentita all’operato di una società privata». In un’intervista al Corriere della Sera il ministro dimissionario Maurizio Lupi ha poi affermato: «Vedo molta agitazione ma personalmente non mi spaventano gli spagnoli. Sulle telecomunicazioni è evidente che la Rete è il problema centrale: il mercato è il mercato, non discuto. Ma il nostro compito è salvaguardare la rete sul modello Terna o Snam. Credo che si debba arrivare allo scorporo e alla creazione di una società pubblica che gestisca la Rete». La crisi di governo complica terribilmente le cose. Vedremo.

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