Istruzione e lavoro. L’Ocse bacchetta l’Italia

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di Emiliana De Santis

L’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo pubblica come ogni anno il rapporto “Education at a Glance” in cui analizza i sistemi di istruzione dei Paesi membri. Quello che emerge dal report 2013 è quadro piuttosto segnato dalla crisi economica e dalla disoccupazione che influiscono in maniera decisiva sulla formazione delle giovani generazioni innescando un circolo vizioso che in Italia è più pesante di altri Paesi.

Secondo l’Ocse nel triennio 2008 – 2011 i tassi di disoccupazione sono aumentati nella maggior parte dei Paesi presi in considerazione, attestandosi fino ad oggi su valori molto elevati. Particolarmente colpiti da disoccupazione e sotto-occupazione i giovani, con una crescita preoccupante dei NEET (Neither in Employment, Education and Training – giovani che non lavorano, non studiano e non seguono una formazione professionale) in Italia addirittura maggiore di sette punti percentuali rispetto alla media Ocse. Questa condizione di perdurante crisi economica sta quindi incidendo in maniera determinante sulla loro formazione e occupabilità ed ha altresì pesanti risvolti sociali. Il rapporto evidenza tuttavia come una buona istruzione continui ad essere un notevole vantaggio e lo fa attraverso un’analisi delle retribuzioni lorde medie che, nel caso dei laureati sono considerevolmente più alte rispetto ai diplomati della stessa fascia di età. Il discorso vale quindi anche in Italia, dove pure i tempi che intercorrono tra il conseguimento del titolo e l’ottenimento di un contratto di lavoro sono più lunghi che nella maggior parte dei paesi esaminati e dove è molto forte il divario tra i contratti di lavoro stabile e i quelli precari, scarsamente tutelati e retribuiti.

Altro tema caldo preso in esame dal rapporto è quello della formazione professionale. I Paesi che registrano una percentuale superiore alla media di diplomati nel settore d’istruzione a orientamento professionale, come Austria, Repubblica Ceca, Germania e Lussemburgo, sono riusciti a mantenere la disoccupazione giovanile a meno di 8 punti percentuali mentre Portogallo, Grecia, Spagna e Italia dove questi diplomati sono assai minori e dove si è puntato sulla formazione liceale e generalista, lo stesso tasso ha avuto un boom anche del 12% negli ultimi anni.  Il passaggio dagli studi al mondo del lavoro si rivela quindi cruciale. Dove esso è più fluido, sono maggiori i tassi di crescita e di occupazione. È così all’Aja, a Berlino e a Monaco, capitali che hanno approfittato della positiva finestra economica dei primi anni del millennio per effettuare una congiunta operazione su lavoro e scuola: diminuzione dei costi della spesa sociale, risanamento dei conti e sgravi fiscali sulle assunzioni, riforma delle pensioni e stringenti criteri sui sussidi di disoccupazione, riqualificazione e attenuazione del divario tra lavoro stabile e precario ed infine concessione alle scuole della totale autonomia sui calendario e didattica. Esemplare il sistema duale tedesco che permette agli istituti scolastici la completa aderenza al tessuto produttivo locale con l’adeguamento dei programmi alle esigenze manifatturiere del territorio, riconoscendo a livello statale ben 344 mestieri. Questo metodo permette ai giovani di lavorare e studiare senza perdere di vista l’università, “così arrivano al diploma di laurea con più competenze formate sul campo di lavoro” ha spiegato Stefano Scarpetta, vicedirettore del dipartimento occupazione e politiche sociali dell’Ocse.

“La lotta alla disoccupazione giovanile passa anche per la scuola e l’università” ha dichiarato di recente il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, esprimendo soddisfazione per i provvedimenti su scuola e università contenuti nel decreto legge Lavoro. Soddisfazione più che giustificata vista la situazione. Da viale Trastevere si è fatta notare l’esigenza di “favorire il raccordo tra la realtà formativa nazionale e quella regionale che organizza i percorsi di istruzione e formazione professionale rispondendo in modo puntuale alle esigenze formative dei giovani e consentendo un più facile accesso al mercato del lavoro”. Gli interventi presenti nel decreto riguardano i tirocini extracurriculari indirizzati agli studenti delle quarte classi superiori attraverso un piano triennale che pone l’accento sugli istituti tecnici e professionali. L’idea del governo è appunto quella di colmare il divario tra il fabbisogno di lavoratori specializzati e la scuola che sforna sempre più liceali e sempre meno tecnici. È infatti della Fondazione studi Consulenti del lavoro in Italia una ricerca secondo la quale ci sono in Italia circa 150mila posti di lavoro disponibili come panettieri, falegnami, baristi e sarti che nessuno vuole fare. Per l’università è invece previsto un piano da 10,6 milioni di euro per cofinanziare tirocini curriculari grazie al quale gli studenti potranno prender parte a stage della durata minima di 3 mesi con un rimborso spese mensile che potrà raggiungere i 400 euro, metà a carico dello Stato e metà dell’azienda che offre il tirocinio.

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